giovedì 3 dicembre 2015

NOI, L'EUROPA E IL TERRORE


di Massimo Colaiacomo


     Per combattere il terrorismo è utile, efficace e sufficiente rafforzare l'azione di intelligence sul fronte "domestico" oppure è inevitabile portargli la guerra nei suoi territori, oggi in Siria e Iraq e presto anche in Libia e nella vasta area del Sahel? Oppure le due opzioni sono fra loro collegate e dunque entrambe indispensabili per dare efficacia a una seria azione di contrasto? Non sono i soli interrogativi, ma sicuramente fra i tanti sono i due più urgenti in attesa di una risposta. È intorno a queste domande che l'Europa sta consumando tempo ed energie e le risposte fin qui arrivate hanno mostrato divisioni molto profonde, superiori alla solidarietà di superficie mostrata dopo gli attentati a Parigi dello scorso 13 novembre. L'Europa è divisa perché è fragile la sua identità e un'Unione priva di una chiara politica estera e di difesa presta facilmente il fianco alle minacce di chiunque voglia aggredirla.
     La deriva dell'Europa come soggetto politico largamente incompiuto costituisce, di fatto, un incentivo potente per il terrorismo jihadista. Non a caso è il teatro europeo quello scelto dalle varie affiliazioni terroristiche per misurare la loro potenza e la loro forza nei rispettivi Paesi d'origine e così legittimare il diritto a governare porzioni di territorio e fonti energetiche. È sotto i nostri occhi e alimenta la nostra inquietudine una pericolosa asimmetria; da un parte, gli aggressori guidati da una sola cabina di regia che coordina le cellule di un terrorismo in franchising; da questa parte, gli aggrediti che si difendono con 28 cabine di regia, tante quanti sono gli Stati membri dell'Unione europea e i servizi di intelligence
     La risposta agli interrogativi iniziali sarà inevitabilmente lenta ed è verosimile che l'attesa costerà altri lutti alla popolazione europea. Divisi sulla guerra, divisi nella difesa, i governi europei stentano a  definire una linea comune di risposta all'aggressione del terrorismo. Una spia di queste difficoltà si trova perfino nell'adeguatezza del lessico: il terrorismo è una sfida o anche una minaccia e un'aggressione? e se invece fosse una guerra non convenzionale? La sfida è sicuramente fra le diverse bande di terroristi, ciascuna impegnata a dimostrarsi più efficiente delle altre nell'uccidente un gran numero di persone. La minaccia e l'aggressione è verso gli europei. Londra, Parigi e Bonn hanno scelto, ma senza intesa alcune con la Russia e solo parziale con gli Stati Uniti, di rispondere con i bombardamenti senza escludere l'invio di truppe.
     Non ha tutti i torti il presidente Renzi quando invoca una strategia per il "dopo" Assad onde evitare che si ripeta in Siria quello che si è visto in Libia. Se fra gli oppositori dell'attuale regime dovesse infatti prevalere la corrente più vicina al terrorismo islamico la diplomazia occidentale si troverebbe a gestire qualcosa di molto paragonabile a una guerra totale. C'è però, taciuta da Renzi e da molti osservatori, una differenza fondamentale: l'intervento in Libia fu un errore, col senno di poi, e in conseguenza di quell'errore il Paese è stato consegnato ai terroristi e alla violenza. In Siria siamo in una situazione opposta: il terrore c'è già, e un'eventuale guerra potrà solo estirparlo o, male che vada, lasciare lo stato di cose.
     Lo schema logico-diplomatico seguito dal governo italiano - accordiamoci sul dopo Assad e a quel punto l'Italia è pronta a intervenire - nasconde un non detto: senza un accordo, l'Italia è pronta a subire le conseguenze della guerra che fanno gli altri Paesi europei. Si tratta, in tutta evidenza, di una posizione insostenibile di fronte a sviluppi imprevisti ma non imprevedibili. Non si può entrare in guerra solo in conseguenza di un attentato. Bonn e Londra hanno risposto alla richiesta di solidarietà venuta da Hollande non perché hanno subito attentati (e Londra non interverrebbe 10 anni dopo l'attentato alla Tube) ma perché si sono assunta la responsabilità che compete a Paesi di riferimento come è una potenza vincitrice (Gran Bretagna)  e come deve essere per il Paese guida dell'economia europea.
     L'Italia naviga nel mezzo, facendo leva su qualche astuzia levantina di troppo. È vero che la Libia è la polveriera sulla soglia di casa ed è vero che il trasferimento fra Sirte e Misurata di uomini e armi del Califfo non potrà più lasciarci indifferenti. A quel punto, però, toccherà all'Italia chiedere la solidarietà degli altri Paesi europei. Ma potrà farlo soltanto con un debito morale verso gli alleati.

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