sabato 17 ottobre 2015

DA BERLUSCONI A RENZI, IL POPULISMO NON CAMBIA VERSO

di Massimo Colaiacomo


     Si assiste con qualche sgomento alle rivendicazioni di Renzi e Berlusconi su chi veramente abbia i titoli giusti per intestarsi il primato dei tagli fiscali. Con la Legge di stabilità appena varata, il premier sostiene di aver operato la prima, grande riduzione delle tasse sulla casa, senza distinzione per fasce di reddito o per categoria catastale. Una decisione in qualche misura storica se si considera che è stata presa da un leader espresso da una maggioranza pregiudizialmente ostile a ogni riduzione fiscale. Senonché questa misura, come era in parte prevedibile, non ha suscitato una salva di applausi e cori di approvazione in una parte del PD e nel resto della sinistra. Tant'è: le elezioni amministrative sono meno lontane di quanto non dica il calendario e Renzi, da politico consumato, non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione.
     Con il consueto autocompiacimento, l'ex premier Berlusconi ha accusato Renzi di averlo copiato nella strategia fiscale. Non c'è che dire: nella rincorsa a chi è più bravo nel taglio delle tasse la sfida fra Renzi e Berlusconi è più che mai aperta. Fra i due non si è mai aperta, né mai si aprirà, invece, la sfida a chi è stato o è più bravo nel trovare le coperture strutturali ai tagli fiscali. In una parola, come e dove tagliare la spesa pubblica in modo permanente e crescente: cioè dell'unico vero modo per rendere stabile nel tempo, e senza tentennamenti o ripensamenti,  la progressiva riduzione delle aliquote fiscali sui redditi da lavoro e di impresa.
     Questa competizione fra Renzi e Berlusconi non c'è stata né mai potrà esserci per molte ragioni. Una, forse la più importante ma non la sola, è l'attitudine di entrambi a esercitare il potere "a trazione anteriore" e non su quattro ruote motrici. Ogni decisione di politica economica viene presa da Renzi, come ieri da Berlusconi, avendo in una mano i sondaggi e nell'altra il calendario delle scadenze elettorali. Entrambi, Renzi e Berlusconi, sono uguali nella loro istintiva capacità di cogliere gli umori del momento e sintonizzarsi sulla lunghezza d'onda dell'opinione pubblica. Una caratteristica che Berlusconi ha lodato in Salvini quando, qualche giorno fa, ha riconosciuto nel leader leghista l'abilità "di dire alla gente quello che la gente vuole sentirsi dire". Che è, poi, la definizione, perfetta e sintetica, della logica populista: non guidare il popolo verso un traguardo, ma seguirlo nelle sue pulsioni e nei suoi desideri. Sotto questo aspetto, Renzi è la prosecuzione del berlusconismo con una maggioranza parlamentare che in parte recalcitra all'idea di berlusconizzarsi.
     La legge di Stabilità varata dal governo reca il brand di Matteo Renzi in ogni paragrafo, in ogni codicillo. Ogni misura parte da un certo giorno di un certo anno. Ogni spesa si copre spostando poste di bilancio da un capitolo all'altro e si tratta di coperture una tantum. Un esempio: Renzi ha assicurato ai sindaci che il governo li compenserà nel 2016 per i mancati introiti dovuti al taglio di Imu e Tasi. Bene: e per il 2017? e il 2018? La strategia di coprire tagli fiscali permanenti con misure una tantum da escogitare fra una manovra e l'altra trasmetterà ai mercati, prima o poi, l'idea di una condizione di instabilità. Il disegno di politica economica di Renzi è molto simile all'azzardo: verosimilmente il premier confida su un irrobustimento della ripresa economica, europea e quindi italiana, tale da risolvere tutto d'un colpo la precarietà delle coperture fiscali alla spesa. Se la crescita del Pil, nel 2016, sarà superiore all'1,5% così come quest'anno sarà superiore allo 0,7% ipotizzato nel Def di aprile, ecco che si aprono opportunità nuove e fino a oggi insperate per la tenuta dei conti.
     È possibile che le cose vadano nella direzione auspicata dal premier. Come pure è possibile una ripresa meno lenta dell'inflazione, che darebbe una spinta significativa al miglioramento del parametro debito/Pil. In attesa che si realizzino questi desideri, rimane il fatto che l'esecutivo in carica, come quelli che lo hanno preceduto (compreso il governo "rigorista" di Mario Monti) non ha trovato il coraggio politico di intervenire alla fonte della spesa pubblica per modificare e ridurre strutturalmente il corso di quel fiume impetuoso che è il debito.
     Dietro la disputa fra la spesa produttiva e quella improduttiva, si nasconde da sempre in Italia la mancanza del coraggio politico, tanto del centrodestra quanto del centrosinistra, di intervenire sulla spesa e, in particolare, di riscrivere il perimetro e l'accesso al welfare state così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi 30 anni. Nessun premier italiano ha mai pronunciato parole come quelle di Manuel Valls allorché ha ammonito i francesi "perché negli ultimi quarant'anni abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi". Né Renzi né Berlusconi hanno il profilo politico e culturale per rivolgersi agli italiani con espressioni simili. Né Renzi né Berlusconi potranno rivolgersi al Paese e ai sindacati per sostenere che bisogna rivedere l'organico dei dipendenti pubblici per immaginare una sua progressiva riduzione. Da Renzi a Berlusconi sono cambiate molte cose nel contesto internazionale ed europeo: la crisi si è attenuata, la Bce ha immesso e continuerà a immettere liquidità nel sistema economico e il costo dell'energia rimarrà basso ancora a lungo. Una cosa è rimasta immutata: il debito pubblico italiano e la sua tendenza a crescere. Anche se Renzi, smentendo se stesso, ha usato in questo caso il verbo al futuro: nel 2016 il debito scenderà.     
      

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