venerdì 6 novembre 2015

IL SSN ALLO STATO È LA VERA SVOLTA NELLA SPESA


di Massimo Colaiacomo


     La politica gira attorno a un problema che si trascina da 37 anni. La riforma della sanità, fortemente voluta dalla Dc, dal Pci, dal Psi e dai sindacati, è entrata in vigore il primo gennaio 1978 e ha portato alla regionalizzazione dell'assistenza con il duplice risultato, da un lato, di snaturare le Regioni, nate come Enti di programmazione territoriale senza compiti di gestione diretta,  e, dall'altro lato, di trasformare in un carrozzone pubblico, e nelle greppia dove la politica si è finanziata a larghe mani, le vecchie casse mutue gestite con criteri di efficienza e trasparenza sicuramente maggiori.
     Si disse, nel clima populista già allora diffuso, che con la riforma si affermava il diritto universalistico alla salute. Come per dire che fino a quel momento quel diritto sarebbe stato negato o precluso a una parte della popolazione il che, come sa chi conosce la materia, era un falso assoluto. Mai prima di allora nessun italiano era stato abbandonato dall'assistenza pubblica. Essa veniva erogata dalle casse mutue alle quali era obbligato ad assicurarsi ogni lavoratore. Per chi, senza lavoro o indigente, l'assistenza veniva erogata attraverso gli Enti di beneficenza che godevano di un parziale finanziamento dello Stato. Era esattamente il modello sociale di assistenza ancora oggi valido in Germania: cassa mutua più una quota di solidarietà per chi era escluso.
     In quel modello organizzativo non c'era spazio per i partiti politici. Le Asl, poi diventate Ussl, erano, fin dall'acronimo, il riflesso di quelle "democrazie popolari" in cui attorno al partito si formava una casta di privilegiati. Il passaggio della sanità alle Regioni, perfezionato con l'Accordo dell'agosto 2001, ha realizzato la più grande fonte di corruzione per la politica locale, come dimostrano le cronache giudiziarie locali i cui protagonisti sono quasi sempre assessori alla Sanità, primari ospedalieri, aziende, ditte e appaltatori sorpresi dalla magistratura a spartirsi il bottino di tangenti su qualsiasi foglia si muova nella sanità.
     Il premier Matteo Renzi non ha torto quando, ai governatori che si lamentano per il mancato incremento del Fondo sanitario nazionale, dice di darsi una regolata nelle spese e di tagliare qualche privilegio. Renzi sostiene una mezza verità che è sotto gli occhi di tutti. L'altra metà non ha il coraggio di dirla: e cioè che è semplicemente folle un Paese con 60 milioni di abitanti e 20 sistemi sanitari autonomi, cioè con venti apparati burocratici, con centinaia di direttori generali e Consigli di amministrazione. Renzi non ha la forza politica per affermare quello che tutti gli italiani vedono. Ma, soprattutto, non ha le carte in regola per simili affermazioni dal momento che di quella selva burocratica che nasconde e tutela grovigli di interessi vicini alla politica lui ne è in qualche modo l'espressione.
     Se ci fosse un'opposizione liberale, ma soprattutto libera dagli stessi vincoli di potere che frenano Renzi, per il premier la vita sarebbe difficile. Per sua fortuna, ma per disgrazie degli italiani, non è così. Il campo del centrodestra è stato colto di sorpresa, e in qualche modo sbaragliato dal movimentismo renziano anche se, a ben vedere, si tratta di un dinamismo che corre sulla superficie dei problemi senza mai prenderli di petto. Qualcuno ha sentito Maroni o Zaia o Toti lamentarsi di dover gestire la sanità e che preferirebbero restituirne la competenza allo Stato? Come potrebbero dirlo se proprio la Sanità, che rappresenta circa il 70% dei bilanci delle Regioni, è diventata uno delle fonti di legittimazione dell'esistenza delle Regioni medesime?
     Pochi lo ammettono, anche se tutti lo sanno, che il ritorno della Sanità in capo alle competenze statali consentirebbe di tagliare la spesa pubblica di 35, forse 40 miliardi di euro all'anno. In conto sarebbero da mettere quelli che Grillo chiama "effetti collaterali", cioè il licenziamento di qualche migliaio di dipendenti amministrativi assunti nella interminabile stagione del clientelismo politico, come pure qualcuno delle migliaia di primari nominati per "meriti politici" e nient'affatto professionali. I partiti preferiscono guardare altrove ma è significativo che il solo Beppe Grillo, sia pure riferito al Comune di Roma, ha trovato il coraggio di parlare di licenziamento di pubblici dipendenti. È autolesionista Grillo oppure ha fiutato meglio e prima di altri l'aria che tira in Italia?

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