venerdì 11 ottobre 2013

DRAGHI E SINDACATI DICHIARANO GUERRA ALLE TASSE, LETTA E ALFANO SI TRASTULLANO CON LA STABILITÀ


di Massimo Colaiacomo 

Come ogni anno liturgico, anche il governo italiano rispetta il calendario quando bussa alle porte la Legge di stabilità, il provvedimento di finanza pubblica che ha preso il posto del Def (Documento di economia e finanza) che, a sua volta, qualche anno fa aveva preso il posto della più semplice Finanziaria. Tanti mutamenti di denominazione, ma la direzione di marcia del debito è rimasta sempre immutata e in costante crescita.
La liturgia degli incontri preparatori con le forze sociali è stata rispettata alla lettera da tutti i protagonisti, così che da qualche giorno a Palazzo Chigi è un viavai di sindacalisti, imprenditori, agenti immobiliari, rappresentanti di ciascuna e di tutte le mille corporazioni di cui è ricca l'Italia. A tutti Enrico Letta ha assicurato che il taglio del cuneo fiscale sarà il cuore della manovra, insieme alle politiche per la crescita.
A tutti, nello stesso tempo, ha ricordato la scarsità di risorse disponibili per fissare traguardi più ambiziosi e questo non sarà possibile fino a quando l'Europa non si scrollerà di dosso l'egemonia rigorista della Kanzelerin e del suo ministro delle Finanze Wolfgang Schüble.
Questo è il racconto, con le varianti del caso, che si sentono ripetere gli ospiti di Palazzo Chigi.
Il racconto, però, da qualche tempo non funziona più. Si è inceppato. E' diventato una cornice troppo labile per contenere la realtà dell'Italia che, come ogni realtà, recalcitra e si vendica contro chiunque si sforzi di concettualizzarla. Se finanche i sindacati si spingono a dire, come ha detto Angeletti, che senza provvedimenti shock di abbassamento delle tasse non si uscirà da questa situazione, evidentemente qualcosa si è rotto, o non gira più nel verso in cui aveva finora girato tenendo in piedi quella gabbia dorata e socialmente costosissima chiamata "concertazione sociale".
Proviamo a chiederci come mai, nel giro di 24 ore, il presidente della Bce Mario Draghi e i sindacalisti italiani si sono ritrovati a invocare (quasi) le stesse cose: giù le tasse e (Draghi) giù la spesa pubblica. Senza decisioni energiche e coraggiose in questi settori, da malferma che è la ripresa potrebbe ghiacciarsi, è stato in soldoni il messaggio di Draghi. Che cosa può voler significare questa coincidenza di messaggi e come essa è destinata a impattare nel mainstream di un Paese sia pure conservatore fin nel midollo come l'Italia?
Di che cosa si è occupata la politica in queste stesse ore? Quali sono stati i commenti dei grandi giornali al discorso pronunciato da Mario Draghi a New York?
Sul primo punto si fa presto: il Parlamento ha licenziato il ddl sul femminicidio; Berlusconi ha invitato il PdL a rinfoderare le armi e rimanere unito; Cuperlo ha formalizzato la propria candidatura alla segreteria del Pd; Grillo si prepara alla resa dei conti con i parlamentari disallineati sull'immigrazione. Commenti ed editoriali ai moniti di Draghi? Zero uguale zero.
Di che cosa si è occupato il presidente del Consiglio Enrico Letta? Si è occupato di "stabilità", la propria e quella dell'esecutivo. Stabili. "Il nostro paese  si salva se avrà istituzioni che funzionano. L'impasse politica che abbiamo subito intorno alle elezioni ha provocato danni, anche economici, al paese. La stabilità è un valore perché crea le condizioni per avere credibilità e fare le riforme strutturali".
Unica voce dissonante ascoltata in queste ore è stata quella di Mario Monti. L'ex premier ha cosparso di british subtlety l'invocazione quotidiana della stabilità: senza le riforme la stabilità è inutile e Scelta Civica è pronta a lasciare il governo.
Letta è prigioniero della sua maggioranza. La stabilità che lui persegue impone prezzi da pagare e costringe Letta a muoversi come in una cristalleria. A chi serve il taglio del cuneo di 4-5 miliardi? Perché in Italia serve nominare un tecnico per la spending review quando negli altri Paesi sono il governo e la maggioranza ad assumersi la titolarità politica dei tagli di spesa? La politica in Italia è debole ma soprattutto è pervasa di populismo e di demagogia. Nessun partito, di destra o di sinistra, ha trovato il coraggio fino a oggi di spiegare agli italiani che il sistema di Stato sociale fin qui conosciuto deve essere superato e drasticamente ridotto, affidando al mercato servizi anche essenziali fin qui svolti dallo Stato. Né Letta né Alfano hanno la forza, e forse neppure il convincimento personale oltre che l'orizzonte politico, per immaginare di cambiare il corso della storia del nostro Paese incidendo in profondità nella spesa pubblica. Per fare un esempio: il Congresso non ha autorizzato l'aumento del tetto del debito al presidente Obama. Come conseguenza, 800 mila dipendenti pubblici dal 1/mo ottobre sono a casa. Circostanza mai destinata ad accadere in Italia.
La verità è che questo esecutivo, come quelli che lo hanno preceduto, punta tutta le sue fiches sulla spinta che può venire all'Italia dalla ripresa internazionale. In attesa di avere un filo di vento alle vele, tutti si trastullano nel tiro al bersaglio contro il rigorismo della Kanzelerin diventata ormai l'alibi dietro il quale si nascondo i governi europei, a cominciare da quello francese finito imballato e privo di ogni visione riformatrice. Letta non è da meno. Si invoca la crescita, ma non si trova la forza per prelevare 50-60 miliardi dalle spese correnti e spostarli sulle spese per investimenti e di sostegno alle imprese. 

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