lunedì 4 novembre 2013

POPULISMO E RIFORMISMO, L'EUROPA ALLO SPECCHIO

di Massimo Colaiacomo

     Ha ragione Angelo Panebianco sul Corriere della Sera quando osserva che gran parte della responsabilità dell'antieuropeismo pronti a manifestarsi alle urne per il Parlamento europeo ricade sulle spalle delle élites che lo hanno provocato con le loro politiche sbagliate. Si può ragionevolmente aggiungere che l'antieuropeismo altro non è se non l'altra faccia della medaglia, cioè di un europeismo burocratico, lontano dalle persone ed alla realtà, nutrito degli interessi egoisti dei singoli Paesi. L'antieuropeismo è anche, va aggiunto, la risposta ai successi ottenuti dall'Europa sulla via dell'integrazione. Sia pure di un'integrazione sbilenca e squilibrata, in cui uno solo (la Germania) distribuisce le pagelle e detta il ritmo.
     L'antieuropeismo, aggiungiamo, è oggi più forte nei Paesi dove in passato si era registrato la più alta percentuale di adesione al progetto europeo. Come sorprendersi, del resto, se greci, spagnoli, portoghesi e italiani sono ostili al volto arcigno di un'Europa che chiede ai rispettivi Paesi sacrifici sanguinosi per risanare la finanza pubblica senza peraltro offrire nessuna prospettiva di crescita? Diverso è il caso della Francia. L'avanzata tumultuosa del Front national di Marine Le Pen si presenta più che altro come un allargamento dell'antico solco golliano dell' "Europa delle Patrie". Le Pen, balzata in testa ai sondaggi, attacca l'Europa sul terreno delle politiche concrete (l'immigrazione, la politica del lavoro e demografica) senza mai apertamente evocare l'uscita della Francia dall'Unione europea.
     Nel caso italiano, assimilabile a quello degli altri Paesi del Sud, l'antieuropeismo si nutre del rancore sordo per istituzioni avvertite come ostili e lontane. L'Europa, sognata e desiderata negli anni Settanta e Ottanta come l'approdo in un porto sicuro di benessere e di sviluppo, ha rivelato improvvisamente il suo volto inciprignito fatto di bilanci pubblici da mettere e tenere in ordine "a qualsiasi prezzo".
     Ma qual è il senso da dare alla presumibile valanga di consensi per i partiti anti-Ue? È possibile leggerlo in due modi: come voto di censura ai rispettivi governi nazionali, secondo una tradizione consolidata nel tempo; ma è anche possibile leggervi un voto dichiaratamente ostile alle modalità fin qui seguite per costruire l'integrazione europea. Come possono rispondere i governi nazionali alla manifestazioned i questo dissenso? Se quei governi sono sinceramente e intimamente convinti della bontà del progetto di integrazione (ed Enrico Letta lo è) hanno una sola strada da percorrere: fermare le macchine, porre il veto a ogni iniziativa di riforme strutturali dell'Europa senza aver prima ottenuto concessioni sostanziali e cospicue nella revisione delle politiche di bilancio. A cominciare dalla prima e più importante: la revisione del Fiscal compact per cui l'Italia dovrebbe ridurre di 50 miliardi all'anno il proprio debito pubblico.
     Si tratta di spiegare al governo di Berlino, ma soprattutto alla sua riluttante opinione pubblica, che una simile scelta è nell'interesse di tutti, dei tedeschi per primi. In sua assenza, l'Europa perderà ogni significato agli occhi delle nuove generazioni.

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