lunedì 18 novembre 2013

LETTA SCORTICA IL FONDO DEL BARILE, L'EUROPA NON CREDE CHE TAGLIEREMO MAI LA SPESA



QUELLO CHE LETTA PUÒ FARE, QUELLO CHE DOVREBBE FARE E QUELLO
CHE NON FARÀ PER ALLONTANARE IL VOTO E AVVICINARE LA TROJKA

di Massimo Colaiacomo

     Enrico Letta fa bene a ostentare ottimismo sulle sorti del governo e del Paese. È il presidente del Consiglio e sarebbe curioso se facesse o mostrasse il contrario. A ciò si aggiunga che la lunga scuola democristiana, sia pure sotto la guida di una personalità intelligente e di specchiata moralità come Nino Andreatta, lo ha educato a un distacco cinico rispetto ai tumulti della vicenda politica. C'è una galleria di aforismi per spiegare il mood con cui Letta osserva e si muove nel quadro politico. Valga per tutti l'adagio attribuito a Giovanni Giolitti secondo cui "durare è tutto, governare è niente".
     La spaccatura del PdL non è il divorzio da molti immaginato fra Berlusconi e Alfano ed essa non è affatto destinata a rafforzare il governo. Se vuole respingere le accuse di tradimento, Alfano dovrà necessariamente irrigidirsi sulle questioni programmatiche che stavano a cuore al PdL: dal calo della pressione fiscale alla riforma del mercato del lavoro, dai tagli della spesa pubblica hic et nunc alla riforma della Pubblica amministrazione, non c'è terreno sul quale Alquale non sarà chiamato a dar prova di coerenza con l'impostazione programmatica del PdL. È certamente vero che per Enrico Letta cesserà lo stillicidio quotidiano di agenzie che minacciano la crisi ogni tre per due, ma è altrettanto innegabile che si restringono per lui gli spazi di manovra sul programma. Di qua Alfano, di là un Matteo Retante, come si vede dal caso Cancellieri che divide il Pd. Con i renziani nel ruolo di avanguardia nella richiesta di dimissioni del ministro, difeso a spada non più tratta dal Quirinale e dal premier. Se la Cancellieri, come lasciano intuire le voci che filtrano, sceglierà la via delle dimissioni per togliere Letta da ogni imbarazzo, non è facile chiudere la vicenda con un rimpasto limitato a quella sola casella.
     E i rimpasti di governo, insegna l'esperienza, si sa come iniziano ma nessuno sa come finiscono.Nun rebus aggiuntivo per Letta, chiamato a un altro passaggio non agevole. Può darsi che la frantumazione del quadro politico, e in particolare delle forze nel centrodestra, si risolva in un cemento positivo per la maggioranza residua, almeno in una prima fase. È altrettanto evidente che la maggiore coesione della maggioranza residua dipenderà dagli interessi concreti dei protagonisti sul campo. Quello di Alfano è di prendere tempo, non precipitando la corsa elettorale, avendo il problema difficile di organizzare un partito. Quello di Renzi è diametralmente opposto: accelerare verso le urne per non perdere il favore del momento. Con un centrodestra diviso (diviso meno di quanto appaia, ma pur sempre diviso e pasticcione), perché attendere il 2015 quando Renzi sarà stato logorato dai vecchi cacicchi del partito?
     Enrico Letta avrebbe, e tuttora ha, carte importanti da giocare. Per esempio, riscrivere larghe parti della legge di stabilità, calare il sipario sullo spettacolo indecoroso e risibile (e l'Europa ride, non credendo a una sola parola) di una spending review diventata come l'albero di Bertoldo, e procedere a tagli vigorosi e socialmente dolorosi della spesa pubblica. Il modello è quello di Mariano Rajoy, in Spagna. Quel premier ha fatto una cosa semplice, due anni fa: ha preso le misure che al suo posto avrebbe preso la trojka. Ha salvato la dignità nazionale e ridato a se stesso una prospettiva politica. Per fare questo Letta dovrebbe  abbandonare la strategia della sopravvivenza e navigare in mare aperto. Lo farà? È da escludere, visto il timbro democristiano che risuona in ogni sua indecisione. Più probabile che in primavera sarà la trojka economica a fare quello che un ceto politico fallito non è in grado di fare. Del resto,bbe fare oggi quello che nessuno ha voluto fare in 65 anni di vita repubblicana?

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