martedì 1 ottobre 2013


di Massimo Colaiacomo
   
     Silvio Berlusconi non è Agamennone e di sicuro non sacrificherà Marina-Ifigenia per propiziarsi il favore degli dei. Nel cielo di Berlusconi non ci sono più dei. Il combattente di mille battaglie sta affrontando nel peggiore dei modi l'ultima, decisiva battaglia della sua non breve stagione politica. Berlusconi ha mille e una ragioni per gridare al cielo il furore e la rabbia per la persecuzione giudiziaria di cui è stato vittima per vent'anni. Vittima e insieme beneficiario, se è vero che milioni di italiani lo hanno votato a dispetto, o forse grazie all'ostilità pregiudiziale e antropologica dei magistrati.
     All'ultima battaglia, quella che lo avrebbe dovuto impegnare nel passaggio del patrimonio più grande costruito in questi anni - si parla dell'oceano di consensi elettorali - la sua mente sempre vivida si è appannata, la strategia si è fatta oscillante e il furore ha invaso ogni angolo del suo animo. Con una sequenza micidiale di errori - le dimissioni in massa dei parlamentari, poi quelle dei ministri - è riuscito a infilarsi in una gimcana suicida al punto da mandare in frantumi, come si vede in queste ore, il partito divenuto bacino di raccolta dei moderati e liberali italiani cresciuti e allevati nell'avversione per la sinistra, un tempo comunista e oggi ancora un po'.
     Berlusconi aveva davanti a sé il percorso disegnato da Marco Pannella: dimissioni spontanee dal Senato, indossando così il laticlavio di estremo difensore dell'autonomia del Parlamento rispetto alle ingerenze della magistratura, e, dopo, una grande battaglia nel Paese per la riforma della giustizia. Ha scelto, invece, di inoltrarsi nella boscaglia fitta dei giochini parlamentari, cercando affidavit e rassicurazioni, magari anche ricevendone ma senza sapere che non esistono polizze quando l'angelo sterminatore della Ingiustizia italiana ha segnato lo stipite della tua porta.
     Rovesciare il tavolo della maggioranza e insieme quello del governo sono stati, però, due atti di estrema debolezza politica. Nel gioco degli specchi che foderano le pareti di quel labirinto chiamato politica Berlusconi ha perso se stesso, ha perso soprattutto il contatto con chi in lui aveva identificato un certa idea dell'Italia, arruffona e insieme bonaria, sicuramente briccona e ottimista, diligentemente spensierata e pensosamente noncurante.
     Tutto questo è il passato e pensare di riproporlo con Forza Italia è stato il segnale di chi aveva coltivato dentro di sé una nostalgia profonda di quello che era stato e più non sarà. Votare o negare la fiducia a un Letta-bis ora non cambierà di una virgola il suo destino personale, ma può cambiare il destino personale di milioni di italiani all'improvviso privati di un riferimento nel campo moderato. È difficile capire quanto il secondo aspetto rientri ancora oggi nelle preoccupazioni di un super-Ego cresciuto a dismisura ma anche sgonfiato come un soufflé dalla corte d'Appello di Milano e tramortito dal super-Ego di Antonio Esposito.
     Angelino Alfano deve fare da sé. Voterà la fiducia al Letta-bis, in compagnia di altri 20 o 30 senatori mentre il suo inventore e mentore si interroga come Amleto sull'essenza della vita, di quella politica e di quella agli arresti domiciliari. Alfano dovrà portare sulle spalle un fardello terribile. La separazione dal cordone ombelicale che lo ha nutrito per anni non è di per sé garanzia di una crescita robusta. In politica non ci sono eredità assegnate, perché quei notai esigenti e costosi chiamati elettori  sono diventati nel tempo renitenti al loro mestiere. Senza Berlusconi, dopo Berlusconi, ma come e in che modo contro Berlusconi? Alfano non deve sciogliere un nodo, ma reciderlo con utto. Ogni esitazione lo trascinerà nello stesso destino del padre.

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