sabato 19 ottobre 2013

STABILITÀ E CORAGGIO, DUE COSE CHE NON STANNO INSIEME (ALMENO IN ITALIA)


di Massimo Colaiacomo

Tutti invocano la stabilità politica, nuovo totem da adorare, e molti di essi addirittura pretendono il coraggio nelle scelte di politica economica e fiscale del governo. Pochi si sono accorti, e il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi meno di altri, che si tratta di un ossimoro, cioè di due parole che tendono ad autoescludersi, almeno nella politica italiana. In Germania, invece, è stato (e sarà) ben diverso.  Per la ragione che a Berlino le larghe intese non sono fondate sulla "reciproca sopportazione" ma più realisticamente funzionano sulla "reciproca corresponsabilizzazione". In Italia, coraggio non c'era nelle scelte fatte da maggioranze stabili e omogenee e coraggio non è consentito di avere a Enrico Letta. Compiere scelte arduous e too-bold esporrebbe il governo a una crisi immediata. Le "non scelte" di Letta, un colpo qui e uno là, gli consentono invece di traccheggiare e guadagnare tempo nevigando sottocosta. Letta è l'estremo erede dell'adagio giolittiano secondo cui "governare è niente, durare è tutto".
La Legge di stabilità contiene la promessa di nuove tasse, se alla fine di ogni anno fiscale si dovesse registrare uno scostamento significativo negli obiettivi di bilancio. Con l'uso della clausola di salvaguardia, vero e proprio atto di auto-spoliazione della politica, si entra infatti sul terreno della deresponsabilizzazione politica. L'aumento dell'IVA dal 1° ottobre era contenuto nella clausola di salvaguardia messa da Mario Monti nella Legge di stabilità per il 2013. Monti lo aveva a sua volta ereditato dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti.
Il taglio del cuneo fiscale è irrisorio, mentre ben pesante è l'abolizione di una serie di detrazioni fiscali che toccano diverse fasce di reddito. Gli eco-bonus sono addirittura una misura surreale, calata in un Paese la cui popolazione è, in una misura stimata dalle stastiche intorno al 30%, nelle condizioni di dover prima di tutto far fronte alle spese quotidiane.
I partiti sono troppo impegnati a ridefinire il proprio perimetro di interesse e a costruire nuovi sistemi di alleanze per curarsi delle politiche di governo. La finanziaria non piace a nessuno e Letta sa già che proprio per questa ragione sarà approvata. Dove il premier ha sbagliato, per un eccesso di furbizia, è stato nella decisione di rimettersi agli accordi fra le parti sociali e le forze politiche per distribuire il miliardo e mezzo di tagli fiscali. Letta ha imparato a convivere con l'instabilità, come ha detto, ma rischia di farsi davvero male se pensa di utilizzare l'instabilità politica per tenere il governo al riparo dalla tempesta.
Pensare di salvare l'esecutivo limitandosi a fissare le grandezze economiche della finanziaria per lasciare alla dialettica parlamentare di trovare il giusto mix di tagli e incentivi è una furbizia che rischia di ritorcersi contro l'esecutivo. È vero che Letta lavora con una maggioranza eterogenea, ma la sua rinuncia a sostenere con vigore un indirizzo di politica economica chiaro e riconoscibile non produce per questo l'effetto di mettere tutti d'accordo. Rischia invece di esasperare la contesa tra i fautori delle tasse e i loro avversari.
Pd e PdL sono tenuti insieme però da un robusto filo: i tagli alla spesa pubblica, annunciati e poi trionfalmente (sì, proprio così: trionfalmente!) smentiti dai ministri interessati, a cominciare dalla responsabile della Salute, Beatrice Lorenzin.
La spesa pubblica è il terreno dove le distanze fra Pd e PdL diventano colmabili e accordi ritenuti impossibili su altri capitoli diventano invece tranquilli e a portata di mano quando si tratta di non toccare gli interessi delle potenti corporazioni che stanno sulla spesa pubblica come le cozze sullo scoglio.
È risibile la nomina di un commissario, sia pure nella persona rispettabile e competente di Cottarelli, che dovrebbe aprire un cantiere sulla spending review per cercare le voci di spesa da tagliare e che il governo non taglierà mai. GLi unici tagli di spesa sono quelli subiti dai Comuni, almeno da 10 anni a questa parte. Tutti gli altri operatori che ricadono nel perimetro dlela spesa pubblica non sono stati toccati o lo sono stati soltanto marginalmente.
Come può tirare avanti un Paese dove la crisi ha falcidiato il tessuto delle piccole e medie imprese, con ciò riducendo la platea dei contribuenti, mentre è rimasto sostanzialmente invariato il perimetro della spesa pubblca? Come immaginare il futuro dell'Italia se dal 2007 a oggi si stima che sono oltre 350 mila i giovani, laureati e formati a spese dello Stato, in giro per il mondo a cercare lavoro, mentre si calcola in circa 700-800 mila il numero di immigrati irregolari e senza titoli di studio arrivati in Italia?
La bilancia dell'import-export di intelligenza e formazione presenta un saldo drammaticamente negativo per l'Italia. Questo saldo è per certi aspetti più drammatico del 134% del rapporto debito-Pil. Un Paese che non sa trovare un lavoro a una generazione è già tecnicamente fallito. È doppiamente fallito se lasciando scappare tante intelligenze pensa di compensarle ospitando alla rinfusa gente in fuga da Paesi remoti in nome di un buonismo bigotto e molto sciocco.

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