sabato 20 dicembre 2014

AL QUIRINALE ANDRÀ UN PRESIDENTE "NAZARENO" E IL CENTRODESTRA SALTERÀ

di Massimo Colaiacomo

     Il successore di Giorgio Napolitano avrà una vita complicata al Quirinale. E non per le diverse o inferiori qualità personali (difficile giudicare chi è ancora ignoto). Ma per ragioni tutte politiche e quindi ancora più difficili da sbrogliare. Nelle schermaglie preliminari avviate il giorno stesso in cui Stefano Folli ha anticipato le dimissioni di Napolitano in coincidenza con la fine del semestre europeo dell'Italia si sono già intraviste queste difficoltà. Non tanto, come si potrebbe immaginare, per i contrasti sul gradimento di questo o quel candidato, questione che la sua importanza, quanto invece per il profilo politico che si richiede al nuovo presidente e sul quale i partiti sono già ferocemente divisi.
     Quando Berlusconi invoca un "presidente di garanzia" non ottiene una risposta negativa da Matteo Renzi, ma la replica è quanto meno obliqua. Nel senso che Renzi è pronto a dare garanzie a patto di riceverne da Berlusconi sulle riforme costituzionali e sulla legge elettorale. E questo spiega il braccio di ferro di queste ore: da un lato gli strappi parlamentari del governo sulla Legge di Stabilità, per arrivare all'approvazione della legge elettorale prima dell'elezione del presidente della Repubblica, e, dall'altro lato, con il gruppo di Forza Italia pronto a darne ma sempre più simile a un vulcano ribollente.
     Per accordarsi su un presidente "garante" non si capisce ancora a quale genere di garanzie si riferisca Berlusconi. Garante, per esempio, nel senso di un presidente neutrale rispetto al quadro politico-parlamentare? Sulla carta si tratta di una garanzia minima, ma anche la più difficile da ottenere. Si vuole al Quirinale un politico di esperienza oppure una figura che goda di prestigio internazionale, e ricca di ancoraggi politici in un vasto schieramento? Sono maggiori le garanzie che può dare una personalità con forti radici parlamentari oppure è preferibile una personalità priva di una propria rete di consensi parlamentari ma riconosciuta nella società?
     Se da qualche parte esiste una personalità con tutte o parte di queste caratteristiche c'è da credere che prima o poi Berlusconi e Renzi riusciranno a trovarla. Ma questo è solo un aspetto dell'elezione del Quirinale. Continuando su questa strada, si incontra un ostacolo ancora più grande. Riguarda la natura stessa delle "garanzie" chieste al "presidente garante". Che garanzie deve dare il futuro presidente della Repubblica italiana? Per esempio: garantire l'ancoraggio dell'Italia nell'Unione europea e nell'euro anche a costo di imporre nuovi e maggiori sacrifici agli italiani? In questo caso quel presidente potrà essere eletto soltanto nella cornice del Patto del Nazareno e, di conseguenza, essere il garante di quell'accordo e dei suoi contraenti.
     Renzi deve negare, per quieto vivere nel PD, che l'elezione del Capo dello Stato sia un capitolo dell'accordo con Berlusconi. Ma la replica della realtà lo smentisce: senza un Capo dello Stato che garantisca quell'accordo, all'indomani della sua elezione Forza Italia salta come una santabarbara. Un simile presidente può essere eletto, sempre che Berlusconi sappia recuperare la sua capacità residua di tenere il partito unito, senza i voti di Lega Nord e M5s, interessati a rafforzare il loro profilo di forze antieuropeiste e antieuro per lucrare vantaggi elettorali alle regionali della prossima primavera. 
     Questo scenario sembra il più verosimile, essendo irrealizzabile qualsiasi alternativa poiché né Salvini né Grillo dispongono, insieme, dei numeri per eleggere un Capo dello Stato che sia freddo e distante rispetto all'Unione europea. Uno schema simile è, solo in parte, trasferibile alle opposizioni interne a PD e Forza Italia. Né D'Alema né Fitto sono antieuropeisti e i voti dei loro gruppi non avrebbero difficoltà a saldarsi su un candidato europeista "sgradito" a Renzi e a Berlusconi. Nel loro caso, però, si tratterebbe di costruire una candidatura "a dispetto" di Renzi e di Berlusconi e non "per"  rafforzare le ragioni dell'Italia in Europa che rimangono sì importanti ma accessorie rispetto all'obiettivo principale di mettere in crisi i rispettivi vertici dei partiti.
     A meno di clamorosi errori, Renzi e Berlusconi dovrebbero mandare in porto questo passaggio politico decisivo. Con effetti completamente opposti nei rispettivi partiti: Renzi infatti potrà rinsaldare la presa nel PD ma Berlusconi dovrà prepararsi a pagare un prezzo cospicuo come la divisione di Forza Italia, sballottata fra la battaglia interna sul Quirinale e assediata dalle sirene populiste e antieuropee di Salvini. Il leader leghista è un abile comunicatore e, sia pure senza il fascino oratorio di Marine Le Pen, autentica versione nazional-popolare del gollismo, maneggia con disinvoltura le corde populiste tipiche del Berlusconi prima maniera e dunque ha una strada aperta nell'elettorato nostalgico delle parole d'ordine delle origini.
     Berlusconi deve pagare un prezzo, dopo vent'anni, alle contraddizioni politiche vistose sulle quali ha potuto costruire successi elettorali mai conosciuti da altri prima di lui. Populista e disancorato da ogni logica europea, non è riuscito, né potrà mai riuscire, a trasformarsi in un grande leader conservatore sull'esempio di Rajoy o di Cameron. Meglio, vorrebbe diventarlo ma rimanendo populista. Si sa, però, che non esiste in natura la possibilità di scrivere una solida politica conservatrice su uno spartito populista. Qualcuno di buona lena dovrebbe spiegarlo all'ex Cavaliere.

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