martedì 30 aprile 2013

COESI SU CONTESTAZIONI UE, MA DIVISI SU POLITICA ECONOMICA: PER LETTA STRADA SUBITO IN SALITA

di Massimo Colaiacomo

     Si comincia a intravvedere la linea strategica attorno alla quale il presidente del Consiglio Enrico Letta cerca di imbastire l'azione del governo. I due interventi in Parlamento, in particolare quello di ieri alla Camera, hanno delineato due differenti approcci del presidente nei confronti della sua maggioranza. Ciascuno di essi comporta, naturalmente, dei rischi per la stabilità di governo. Vediamoli. Letta ha dato la netta impressione di puntare a una forte coesione politica aprendo un fronte di contestazione verso la UE per chiedere la revisione del Fiscal compact o, almeno, un alleggerimento del Patto di stabilità interno. Su questo versante, che tanto costò a Silvio Berlusconi in termini di credibilità, Letta si muove né più né meno come il Cavaliere. Segno che le feroci critiche della sinistra al governo Berlusconi accusato di essersi isolato in Europa erano quanto meno strumentali. Diversamente dal Cav, però, l'attuale presidente, figlio e diligente allievo di quella straordinaria scuola politica che è stata la Dc, prepara il terreno conflittuale con l'Europa alzando la bandiera dell'europeismo e della fede dell'Italia nelle prospettive dell'unità politica della UE. Su questo terreno, è ovvio, Letta incontra solidarietà convinte che vanno oltre il perimetro della maggioranza.
     Quanto poi questo cemento sia capace di unire ciò che è diviso, e anche aspramente, sul piano del programma di governo resta tutto da verificare. E l'IMU si presenta come un caso di scuola. Su questo punto non si può nascondere che l'arte democristiana della simulazione e della dissimulazione non sarà di grande aiuto a Letta. Il fatto di aver chiamato ieri una sorta di time-out sull'IMU annunciando che a giugno non si pagherà ma che non per questo si deve considerare abolita, ha mostrato la fragilità della posizione del governo stretto fra le richieste perentorie del PdL e la contrarietà sorda del Pd favorevole, come si sa, all'abolizione dell'IMU solo per gli importi pari o inferiori a 500 euro.
     Il governo ha mostrato quanto meno di non avere ancora le idee chiare sul da farsi e questa circostanza rivela la strada tutta in salita per un esecutivo che sarà costretto a fare della mediazione il suo ossigeno vitale. E mediazione, per la DC, ha spesso se non quasi sempre significato rinviare ogni decisione a un tempo indeterminato.
     Non è poi da sottovalutare un altro aspetto. Quasi a voler rassicurare la sua maggioranza, LEtta ha fissato un orizzonte temporale per il suo esecutivo indicando nei 18 mesi necessari per varare le riforme costituzionali il termine massimo di sopravvivenza. Meglio: ha argomentato, in modo non è chiaro se più tattico o ingenuo, spiegando che se entro 18 mesi non saranno state approvate le riforme più attese (riforma della legge elettorale; riduzione del numero dei parlamentari; riforma del finanziamento pubblico dei partiti; abolizione delle province; legge sulla corruzione) egli sarà pronto a trarne le conseguenze. In sostanza, Letta ha avviato un timer sul quale chiunque, alleati o avversari, può agevolmente costruire la propria strategia conoscendo in largo anticipo la procedura da seguire per scaricare il governo.
     Uniti per chiedere le modifiche alle costrizioni troppo severe degli accordi europei, e pronti a lasciare senza l'approvazione delle riforme: in mezzo a questi due estremi c'è o dovrebbe esserci lo svolgimento di un programma di governo imperniato su politiche economiche e sociali in grado di rianimare una crescita da troppi anni sparita dai monitor dei governi.
     Letta ha richiamato tutti al realismo e alla durezza di una crisi nient'affatto al suo epilogo. Nella replica al Senato, il presidente del Consiglio è stato guardingo, quasi a voler riequilibrare l'agenda di impegni annunciata ieri alla Camera con qualche accento ottimistico di troppo. Al punto che perfino Umberto Bossi ha avuto buon gioco a chiedere: sì, va tutto bene, ma dove sono i soldi per fare migliori politiche sociali, rimborsare le imprese e ridurre la pressione fiscale? Quei soldi non ci sono o, se ci sono, restano chiusi nei bilanci saldamente inchiodati dalle ferree regole del fiscal compact. Come a dire, tutto si può fare se l'Europa ci autorizza a farlo. E' un versante infiammabile questo scelto dal governo. Si rischia, per questa via, di ritrovarsi esattamente dove l'Italia era due anni fa. All'epoca dei sorrisini denigratori scambiati da Merkel e Sarkozy in danno di Berlusconi.
     Letta dovrà inventarsi una via d'uscita "alta" agli impegni, per la verità vaghi e generici, annunciati in Parlamento. La situazione rimane fragile, e su questo è difficile dar torto al premier. Ma pensare di venirne a capo con un colpo al cerchio e uno alla botte rischia di farla deragliare. Letta non ha molto tempo davanti a sé per agire e mettersi subito al riparo dai veti incrociati che i partiti alleati hanno già alzato. Accettarne uno significa accettarli tutti e condannare l'esecutivo all'impotenza. E i 18 mesi per le riforme potrebbero rivelarsi un tempo infinito   

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