martedì 16 aprile 2013

PRODI E IL DOPPIO TURNO FRANCESE, IL PROF NON MOLLA LA CORSA AL QUIRINALE E RILANCIA


di Massimo Colaiacomo

     Ricapitolando: Matteo Renzi punta a un governetto di scopo che faccia un compitino accettabile sulle legge elettorale, pompi un po' d'ossigeno al paziente Italia prima che stramazzi e, poi, alle urne. Preferibilmente in ottobre o, male che vada, il prossimo anno in primavera. Berlusconi e Bersani puntano al tutto e subito, ma ognuno seguendo un suo percorso. Il Cavaliere accarezza l'idea di un governo politico imperniato su Pd e PdL; Bersani recalcitra, sbuffa e spinge per un governo di minoranza o, come si diceva nella più fantasiosa Repubblica dei bei (?) tempi, allo sbando. Pensa di andare al Senato, farsi impallinare e tornare alle urne. Insomma, se c'è da rivotare si faccia presto e, all'occorrenza, si trasformino le cabine della spiaggia in cabine elettorali. E su questo i due Ber filano d'amore e d'accordo.
     Problemi: che senso ha tornare alle urne con la legge elettorale che ha bloccato il Paese? E come può la causa del male trasformarsi nella sua terapia?
     Gli orizzonti temporali delle strategie di Bersani e di Berlusconi differiscono: il segretario Pd ha una sola finestra di opportunità, a giugno. Qualsiasi altra tempistica passa sopra il suo cadavere politico. Idem Berlusconi: rivotare a giugno è possibile, ogni altra ipotesi lo vedrebbe soccombere all'incalzare del tempo.
     Mai come nel caso di questi tre leader la tempistica è diventata la sostanza stessa delle rispettive agende politiche. C'è un comune denominatore che li unisce? Sì: nessuno di loro pensa a un esecutivo che vada oltre la primavera del 2014. Per Renzi sarebbe dura tenere la scena. Bombardare il quartier generale del partito rischia, infatti, di assimilare la strategia di Renzi alla politica di pura demolizione del grillismo.
     Esiste un punto medio di incontro fra le tre diverse esigenze strategiche? Sulla carta, no. La strategia di Renzi è antitetica a quelle di Bersani e di Berlusconi. Quella di Bersani, se il leader Pd rimane convinto della suggestione del governo di minoranza, punta al voto ravvicinato esattamente come Berlusconi.
     Come si incrociano queste diverse strategie nell'elezione del presidente della Repubblica? Oggi ha parlato Romano Prodi, il cavallo che in troppi danno già per azzoppato, e ha detto cose pesanti. La più importante è sulla legge elettorale: il doppio turno alla francese garantisce il governo. Vero. Ma furbesca come affermazione. Prodi ha lasciato volutamente nell'aria il seguito della sua analisi: il doppio turno francese ha senso quando, superato il primo turno in cui si vota il partito, si tratta di votare il candidato alla presidenza della Repubblica e la sua maggioranza nel secondo turno.
     Prodi ha aperto, con la sua affermazione, a un cambiamento radicale degli assetti di potere e istituzionali. Ha indicato la via di una riforma che non può essere realizzata da un governo di scopo o istituzionale, ma presuppone una maggioranza vasta e coesa. Paradossalmente, ma non troppo, la riforma elettorale di Prodi si muove in direzione di quel riformismo istituzionale tante volte invocato da Berlusconi come propedeutico per qualsiasi cambiamento in Italia. Sotto questo aspetto, si può dire che Prodi ha lanciato un ballon d'essai verso il centrodestra, cioè la parte politica a lui più ostile al punto da immaginare, come ha detto Berlusconi a Bari, emigrazioni in massa in caso di sua elezione al Quirinale.
     Le affermazioni di Prodi sulla legge elettorale non sono destinate a cadere nel vuoto. Se esse hanno un sapore quasi programmatico, anche gli altri candidati saranno costretti in qualche modo a misurarsi con la sfida lanciata dall'ex premier. Si sa che dietro il suo aspetto disguised pacioso, Prodi arpiona con forza le situazioni. Se non è il candidato in cima alla lista di Bersani, oggi ha detto che è pronto a scombinare quella lista con qualsiasi mezzo. Anche a costo di rivoluzionare le istituzioni, lui, conservatore per natura.

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