domenica 21 aprile 2013

LA REPUBBLICA NELLE MANI SOLIDE DI NAPOLITANO, LE RIFORME IN QUELLE (FRAGILI) DEI PARTITI


IL CAVALIERE TORNA A CAVALLO, MA SI FA PRUDENTE
PER IL PD L'OCCASIONE DI RIDEFINIRE LA PROPRIA IDENTITÀ
COME FORZA DI GOVERNO
PER IL GRILLISMO UNA SOLA CURA: LA REPUBBLICA PRESIDENZIALE


di Massimo Colaiacomo

     Ha ragione Stefano Folli: con la rielezione, i partiti hanno conferito a Giorgio Napolitano poteri enormi se non proprio esorbitanti rispetto a quelli previsti in Costituzione. A Napolitano tutti hanno chiesto, con atto di contrizione e con il cappello in mano, di operare d'urgenza sul corpo vivo della politica per estirpare il male oscuro che la sta divorando dopo il 25 febbraio ma le cui radici affondano molto indietro nel tempo.
      Si spiegano così le reazioni di soddisfazione accompagnata a grande prudenza dei protagonisti che hanno dato vita allo psicodramma sul Quirinale, fino al punto da mettere a rischio la salute della Repubblica. Il Cavaliere è tornato a cavallo ma non impugna lo scettro minaccioso come Bartolomeo Colleoni o come Luigi XV. Ha vinto un tempo di una partita che sa essere lunga e ricca di insidie. Le riforme da lui annunciate lungo un arco di vent'anni e ogni volta evaporate per le ragioni più diverse, devono farsi carne e sangue nei prossimi mesi. Non c'è più spazio né tempo per i proclami elettorali. Chi, ancora stamane, annuncia, come fa Altero Matteoli, che o si fa il governo politico o si va al voto, mostra di non aver capito bene che cosa è accaduto nella ultime settimane. E finge di non sapere che non ci sarà nessun voto prima di qualche anno. Perché nessuno chiederà le urne senza aver prima risanato le cicatrici profonde inferte al sistema politico: farlo significherebbe consegnare la democrazia e la Repubblica a una fase di avventurismo.
     Napolitano ha chiesto ai partiti di ricambiare la sua personale disponibilità a un secondo mandato, disponibilità più simile a un vero sacrificio, offrendo un'analoga disponibilità collettiva.  Napolitano non potrà accettare veti o pregiudiziali da chicchessia. Agirà, c'è da giurarci, fin da martedì per formare un governo che ricalchi nelle sue linee essenziali la maggioranza che ha sostenuto Monti. Con una differenza fondamentale: sarà un governo pienamente politico, senza più lo schermo o il filtro dei tecnici. Pd e PdL dovranno guardarsi negli occhi e insieme rivolgersi al Paese per assumere impegni solenni di riforme istituzionali; di rilancio urgente dell'economia assumendo misure, con decreti leggi, per dare l'ossigeno minimo a un sistema in sala di rianimazione. Dovranno, Pd e PdL, prendere quelle misure urgenti per eliminare il bicameralismo perfetto e ridurre il numero dei parlamentari. E non soltanto per contenere così i costi della politica (bandiera populistica da stracciare subito) ma soprattutto per rianimare un circuito istituzionale le cui procedure barocche e farraginose hanno avvelenato nel tempo la vita quotidiana dei cittadini e costruito un lago di veleni nel loro rapporto con le istituzioni pubbliche.
     Benedire lo scampato pericolo non basta. Il governo che si presume sarà formato in settimana dovrà assumere provvedimenti in poche ore ma, soprattutto, dovrà mostrare una coesione politica molto forte da far valere in sede europea perché gran parte dei provvedimenti necessari all'Italia dovranno persuadere i "contabili" della Commissione. E nessuno meglio di un governo politico coeso può avere il peso giusto per ingaggiare un braccio di ferro a Bruxelles.
     Rimane, e non proprio sullo sfondo, il dramma politico con i suoi risvolti anche umani, che ha letteralmente polverizzato il Pd. Attenzione, però: polverizzato ma non distrutto. La sfida di un governo insieme al PdL e ai centristi di Monti acquista un duplice significato per il Pd: diventa un'occasione per fare chiarezza nei contrasti strategici in cui il partito si trascina da almeno vent'anni; ma è anche l'occasione per ridefinire la propria identità come forza di governo e, in questa veste, capace di parlare a settori della società italiana ritenuti ostili o estranei. Si tratta, per chi raccoglierà l'eredità del gruppo dirigente bersaniano, di superare la natura ambivalente di un partito per metà prigioniero dell'intransigentismo moralistico costruito attorno all'antiberlusconismo, e, per l'altra metà, proiettato verso un'evoluzione riformistica d'impronta europea. 
      Ancora ieri, commentando a caldo l'elezione di Napolitano, Nichi Vendola, offrendo un'immagine vecchia, ripeteva di puntare alla costruzione di una sinistra alternativa al Caimano. Ecco: non si pensa a una sinistra autonoma sul piano programmatico e nell'elaborazione di una tavola di valori. No: la sinistra immaginata da Vendola punta ancora a definirsi in negativo: siamo di sinistra perché c'è il Cavaliere dall'altra parte. Una sinistra simile è la miglior assicurazione per tenersi il Cavaliere altri 50 anni.
     L'altra sinistra, quella che guarda all'Europa o addirittura al blairismo, deve ancora maturare. Facendo attenzione a non lasciarsi irretire nei tatticismi del momento (la bocciatura di Prodi) o mostrare la fretta della giovane età. Matteo Renzi ha sbagliato, e anche molto, nella lunga e drammatica partita per il Quirinale. Deve armarsi di santa pazienza e, soprattutto, comprendere e spiegare fino in fondo ai suoi sostenitori che non è produttivo rottamare le persone sulla base dell'anagrafe e non delle idee sbagliate. Il riformismo italiano ha bisogno di Massimo D'Alema non meno di Matteo Renzi. Il quale, essendo giovane, deve darsi, come diceva Benedetto Croce,  un compito sopra tutti gli altri: pensare a invecchiare.
     Se il pericolo grillino può essere mortale o dissolversi come un incubo al risveglio dipenderà in larga misura dalle riforme che i partiti sapranno mettere in campo. Il presidenzialismo francese è la chiave di volta per ridurre a zero e depotenziare gli estremismi che si agitano nel profondo di settori limitati della società italiana. Quel sistema coniuga meglio di qualunque altro la rappresentanza parlamentare e la necessità di un potere esecutivo forte. Al primo turno si vota i partiti, al secondo si scegli il presidente la cui elezione trascina con sé la maggioranza. E Grillo diventerebe un ricordo. 

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