lunedì 11 dicembre 2017

PRI, IL CONGRESSO DELLA SMEMORATEZZA


di Massimo Colaiacomo


     Quale rapporto può esistere fra un partito come il PRI, protagonista di una storia gloriosa al punto da identificarlo con i momenti più alti dell'Italia pre-unitaria e con la nascita della Repubblica, e la miriade di sigle e acronimi che si affannano attorno a Berlusconi o a Renzi alla ricerca di uno strapuntino alla Camera e al Senato? Sulla carta sembra impossibile stabilire un qualsiasi rapporto fra quel che residua del PRI e le fioritura di sigle dietro le quali ci sono frammenti e schegge di partiti quando non vere e proprie liste personali. Sulla carta, perché nella realtà le distanze sono meno siderali di come si potrebbe immaginare. Il PRI uscito dal suo 48° congresso celebrato a Roma è oggi un acronimo nell'oceano di acronimi che assediano Berlusconi e Renzi alla disperata ricerca di uno scranno parlamentare o per riconfermare qualche uscente senza più voti o per appagare qualche ambizione familista.
     Messa così, la valutazione può apparire severa o ingenerosa. Allora vediamo di spiegare che cosa è finito del Partito Repubblicano e che cosa si cerca di spacciare per vivo e vitale ma che vivo e vitale non è più. Il PRI modellato negli anni '60, nel passaggio dalla stagione di Oronzo Reale a quella di Ugo La Malfa, si impose sulla scena politica come una forza minoritaria nei numeri ma capace di proporre straordinarie sfide politiche alle "due chiese", cioè DC e PCI, fino allora vissute e prosperate grazie alla contrapposizione ideologica Est-Ovest che aveva fatto dell'Italia una linea di confine.
     La Malfa aveva intuito con largo anticipo sui tempi la condizione paralizzante di quella realtà e pose a Moro, a Ingrao, Amendola e Berlinguer la questione dello sviluppo e i termini in cui essa andava affrontata in una società capitalistica complessa, irriducibile agli schemi dell'ideologia e del classismo. In un dibattito divenuto famoso, a Ravenna, nel 1963, La Malfa chiese a bruciapelo a Ingrao e Amendola che cosa avrebbero scelto di fare trovandosi con una sola gallina e niente altro in dispensa. "Mangiare la gallina una volta per tutte, oppure accontentarsi di prendere un uovo al giorno nella speranza di avere prima o poi altre galline". Il capitalismo-gallina partorito dalla fantasia ugolamalfiana rendeva bene l'idea, nell'Italia impegnata in quegli anni nell'imponente opera di riforme e di svecchiamento delle proprie strutture sociali e delle infrastrutture materiali, della complessità delle politiche economiche di bilancio e delle politiche sociali necessarie per rendere duraturo e sostenibile lo sviluppo avviato con i governi Fanfani.
     Il partito raccolto da Ugo La Malfa sull'orlo del baratro e ridotto al lumicino in Parlamento, si salvò e recuperò rapidamente il proprio ruolo negli equilibri politici e nella società italiana perché seppe trasformarsi in una fucina di idee e di programmi. In una parola, il concetto di modernità, non ancora una categoria ideologica negli anni '60, trovò in La Malfa e nelle radici della sua cultura azionista, ma soprattutto fabiana, un interprete straordinario che sapeva leggere le insufficienze e le inadeguatezze di una società in via di trasformazione ma sapeva coglierne anche le ansie di progresso.
     Non fu il PRI a proporsi quale "coscienza critica" nei governi di centro-sinistra, furono piuttosto le circostanze e i ritardi della sinistra, ancora chiusa nel recinto dell'ideologia marxista, come pure quella forma di carezzevole e rassegnato conservatorismo della DC a fare del PRI il perno di una stagione riformista senza salti nel buio. La Malfa seppe contrapporsi a quello che Alberto Ronchey battezzò come "pansindacalismo", alba di ogni concertazione costruita sul debito pubblico, e nello stesso tempo polemizzare con Giovanni Agnelli sull'unificazione del punto di scala mobile.
     Che cosa rimane di quella stagione e di quella successiva, non meno straordinaria, vissuta dal PRI nel segno di Giovanni Spadolini? Nel partito attuale non rimane niente. A parte gli appelli ineluttabili dell'anagrafe, delle idealità e dei valori repubblicani nulla è circolato nel 48° Congresso. Due giorni di dibattiti sterili su quali alleanze costruire, senza mai chiedersi: per fare che cosa? Il congresso ha stabilito che per il partito è decisivo avere un parlamentare purchessia. Qualcuno non disdegnerebbe un dialogo con i grillini per giustificare il quale è stato addirittura richiamato il confronto di La Malfa con il PCI. Di fronte a simili spropositi come ha risposto il Congresso? Si proceda all'alleanza con Denis Verdini! Un partito che oscilla da Grillo a Verdini è evidentemente un partito senza una sia pur vaga idea di dove andare. Per non dire poi del "che fare". In due giorni e mezzo non un'idea o uno spunto di programma è uscito dal congresso. Il vuoto pneumatico. Tutti preoccupati di spiegare perché in quella città ci si allea con la Lega, in quell'altra con il PD e in Sicilia con il centrodestra.
     È mancato il propellente decisivo nella vita di ogni formazione politica: l'orgoglio della propria storia e l'orgoglio della propria autonomia.  Un partito senza idee può solo prostituire il proprio simbolo per ottenere un predellino in Parlamento ma deve rassegnarsi all'irrilevanza e alla fine. Impelagarsi, come ha fatto il PRI, in liti giudiziarie che durano da una decina d'anni significa costringere il partito di Mazzini e di Cattaneo, di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini, a un'agonia straziante e immeritata. Il CN convocato per sabato prossimo a Roma ha due possibilità davanti a sé: eleggere un segretario capace di issare la bandiera dell'autonomia e chiamare attorno ad essa un gruppo di audaci pionieri, oppure scegliere l'ennesimo necroforo di una lunga serie. Se dovesse prevalere la seconda opzione, che almeno il rito sia breve e composto.     
   

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