lunedì 8 luglio 2013

L'AGENDA DEL GOVERNO È OVERBOOKING E IL CARBURANTE DELLA BCE NON BASTA PER LA NAVIGAZIONE


di Massimo Colaiacomo

L'autunno è dietro l'angolo e le cambiali sottoscritte da Enrico Letta all'atto di formazione del governo verranno tutte a scadenza. Vero è che il premier, diversamente dalle accuse che gli rivolgono i critici più severi, non sta con le mani in mano e non vuole presentarsi alla ripresa con il carniere vuoto. Si spiega così l'accelerazione degli ultimi giorni con il ministro Saccomanni impegnato a definire prima della pausa estiva le misure necessarie per bloccare l'aumento dell'IVA e avviare la "rimodulazione" dell'IMU, termine sempre più ambiguo col passare dei giorni.
Letta sa di camminare su un sentiero stretto: è determinato a non sforare di un centesimo i saldi di bilancio, decisione quanto mai avveduta e scontata dopo l'uscita dell'Italia dall procedura di infrazione per deficit eccessivo; deve, nello stesso tempo, trovare una soluzione convincente alle richieste del PdL sull'abolizione dell'IMU. Si tratta, come si può intuire, di un'equazione non facile da risolvere neppure per un commis dell'esperienza di Saccomanni. Va detto che il premier dal 4 luglio può godere di un mantello protettivo ampio e solido, in parte inatteso e per questo più prezioso. Quel giorno, infatti, il governatore della BCE, Mario Draghi, ha raccolto il testimone dal collega della FED Ben Bernanke quando ha annunciato che i tassi resteranno ancora a lngo bassi e l'attuale rate di 0,50% potrebbe non essere ancora il pavimento della politica monetaria. Una manna, è il caso di dire, per quei Paesi come l'Italia alle prese con quell'angoscioso problema che è il controllo del debito pubblico da inizio 2013 proiettato verso traguardi stellari.
Nel suo intervento del 4 luglio, però, Draghi è stato perentorio: una politica monetaria accomodante, e ancora a lungo, è l'occasione, forse l'ultima, per consentire a Paesi come il nostro di mettere mano a quelle riforme strutturali fin qui soltanto annunciate e mai realizzate. Dove è finita la liberalizzazione dei servizi pubblici locali? E la riforma degli ordini? E la flessibilizzazione del mercato del lavoro? E il taglio della spesa pubblica, affrontato sempre con la delicatezza di un ricamo di tombolo?
Come si vede, Draghi ha in qualche misura suonato la campanella dell'ultima chiamata. La trasformazione silenziosa della BCE in una banca centrale, sull'esempio della FED e della giapponese BOJ, è in corso, in forme ancora vaghe, ma Draghi può permettersi oggi un livello di autonomia impensabile ancora un anno fa. E questo, almeno così sembra, per due ordini di motivi: i Paesi periferici hanno avviato, con diversa intensità, le riforme e hanno accelerato sulla via del consolidamento fiscale; la cancelliera Merkel, a due mesi dalle elezioni politiche, non può presentarsi con un'economia in affanno, sempre meno performante rispetto al resto d'Europa e sempre più a rischio contagio. Al punto che lo stesso Mario Draghi ha ribadito, con un occhio rivolto a Berlino, che una recessione prolungata costituisce oggi il maggior rischio sistemico per l'Europa. E la Germania, dopo aver beneficiato per anni della competitività stratosferica aiutata in ciò dalle ipervalutazioni dell'Euro, rischia di soccombere oggi che la moneta unica vedrà intaccata la sua forza dalla politica monetaria di Draghi.
Se questo è con buona approssimazione il quadro europeo dentro cui anche l'Italia deve muoversi, è evidente che Letta può giocare sul tavolo della maggioranza il non possumus del rispetto dei vincoli europei, da un lato e, dall'altro lato, può far leva sugli accordi europei per imporre quelle riforme strutturali che le forze politiche dicono di sostenere senza però averle mai solo sfiorate durante gli anni dei governi, di centrodestra o di centrosinistra cambia poco.
La BCE fornisce carburante, divenuto improvvisamente disponibile per le circostanze appena dette, in quantità illimitata ma chi deve guidare la macchina dei rispettivi governi nazionali è chiamato a farne un uso il più oculato possibile. Le rivendicazioni programmatiche del PdL devono fare i conti con questo quadro e con i paletti indipendenti dalla volontà politica del governo. Vero è anche che la tenuta di bilancio e la sistemazione delle poste dipende dalla volontà politica della maggioranza e dalla capacità del premier di fare sintesi tra le diverse esigenze. Per fare un esempio destinato a rimanere d'attualità per le prossime settimane, abolire l'IMU o allargare la fascia di esenzione è una scelta non soltanto contabile ma squisitamente politica. Restringere la platea dei contribuenti al 20-25%, come vorrebbe una delle ipotesi, rischia di esporre questa riforma alla censura della Corte costituzionale poiché si opera una discriminazione sul concetto e sull'uso stesso della residenza. Peggio ancora sarebbe se il calcolo della nuova IMU venisse realizzato utilizzando anche la capacità di reddito dei residenti, con il che aumentando di fatto la pressione fiscale incrociando il patrimonio con il reddito. La sola via possibile per mantenere l'IMU, mettendo in qualche modo in difficoltà lo stesso PdL, è recuperarla alla funzione originaria prevista dalla Commissione bicamerale per il Federalismo: una tassa a disposizione dei Comuni che possono così coprire i tagli dei trasferimenti statali.   
  

    



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