venerdì 19 luglio 2013

RENZI E LETTA, SENZA RIFORME RADICALI PERDONO ENTRAMBI


di Massimo Colaiacomo

E' dunque con la tecnica andreottiana del "caso Kappler" che il premier Enrico Letta si prepara a risolvere la vicenda Ablyazov? Spulciando nella memoria, può essere utile ricordare come il presidente del Consiglio del tempo, Giulio Andreotti, affrontò e risolse il grave caso di Herbert Kappler, l'ufficiale nazista condannato all'ergastolo per l'eccidio delle Fosse Ardeatine, e fuggito dall'ospedale del Celio la mattina del Ferragosto del 1977.
Sul banco degli imputati finì il ministro della Difesa, Vito Lattanzio, esponente pugliese della sinistra Dc (un moroteo) in quanto responsabile politico delle Forze armate nel cui ospedale era stato ricoverato Kappler dato in fin di vita dopo una serie di accertamenti clinici. Dopo qualche giorno di riflessione, Lattanzio optò per le dimissioni ma venne dissuaso dal segretario della Dc, Benigno Zaccagnini, preoccupato di mettere  repentaglio gli equilibri di governo sempre fragili fra le diverse correnti del partito.  
Le opposizioni, che all'epoca significava Pci e Msi,  incalzarono il governo e il ministro Lattanzio senza fare sconti nella richiesta di dimissioni. Fu allora che Andreotti tirò fuori il coniglio dal cilindro (ne aveva un intero allevamento, visti i frangenti superati anche successivamente): arrivato il mese di ottobre, Andreotti, manuale Cencelli alla mano, realizzò un giro di poltrone. Lattanzio lasciò il ministero della Difesa per i Trasporti scambiandosi di ruolo con il collega Attilio Ruffini, passato dai Trasporti alla Difesa.
Nel caso di Angelino Alfano le cose sono rese più complicate, ma solo fino a un certo punto, dal fatto che egli è il segretario del PdL e il vice premier, ruolo quest'ultimo che ne fa il garante degli equilibri politici del governo.
Se davvero la soluzione politica della vicenda Ablyazov prenderà questa piega, o una simile, Enrico Letta potrà dire di averla sfangata, almeno per il momento. Ma le turbolenze non finiranno almeno finché il Pd non avrà superato la stagione congressuale che ne è la causa principale. Ai  dirigenti del partito è chiaro che la morsa di Matteo Renzi sul governo potrebbe allentarsi a patto di scrivere regole congressuali che ne favoriscano, o non ne intralcino, l'ascesa alla segreteria. Renzi ha fretta, e ha ragione: lui ha 38 anni, Enrico Letta qualcuno in più. Se il governo si stabilizza, Letta diventa un competitor naturale di Renzi.
E' del tutto evidente che la conquista della segreteria del Pd non è il traguardo del sindaco, intenzionato, al contrario, a farne il trampolino per Palazzo Chigi. E qui il rebus si complica. Il ministro Del Rio, renziano della prima ora ma leale ministro del governo Letta, è convinto che la convivenza fra i due sia non solo possibile ma indispensabile nell'interesse del Pd e dell'Italia. L'obiettivo indicato da Del Rio è difficile ma non impossibile.
Renzi e Letta hanno alcune necessità in comune: a) cambiare la legge elettorale, che significa, come si dice, superare il "porcellum" ma significa anche conservare l'attuale assetto maggioritario e possibilmente rafforzarlo per aggirare le difficoltà che il Pd incontrerebbe nel costruire alleanze sul fianco sinistro; b) modificare la Costituzione per introdurre l'elezione diretta, del premier o del presidente della Repubblica, senza la quale qualsiasi premier resterebbe ostaggio del suo partito; c) ridefinire su basi nuove il sistema delle relazioni sociali, superando una volta per tutte il sistema concertativo che sta affossando l'Italia.
Sono pochi ma decisivi punti di contatto quelli che dovrebbero mettere d'accordo Letta e Renzi. Con una differenza significativa: la leva del governo è oggi nelle mani di Letta e dunque è a Letta che Renzi è costretto a rivolgersi con i toni inevitabilmente polemici, e talvolta ruvidi, propri della legge della domanda e dell'offerta. Renzi deve domandare e Letta offrire. Letta non può dare a Renzi quello che il suo governo non ha (compattezza della maggioranza; comune visione strategica; un'agenda di riforme sociali ed economiche condivisa). Renzi, però, non può neppure allargarsi in promesse che né lui né altri potrebbero mai realizzare senza avere fatto le riforme di cui si è detto.
La lotta politica fra i due - si chiama così e non guerra - è destinata a un lungo, defatigante surplace. Defatigante per entrambi: il logoramento non è soltanto del governo ma anche dell'immagine e dei consensi Matteo Renzi. Per queste ragioni Letta ha oggi un interesse vitale a imprimere un'accelerazione al programma di governo. Per farlo deve mettersi alle spalle qualche liturgia del passato alla quale mostra di essere affezionato, come, per fare un esempio, la ricerca spossante di accordi con il sindacato sulla flessibilità del lavoro per i dipendenti di Expo 2015. Il 31 agosto è una data spartiacque più del 30 luglio, quando sarà nota la sentenza della Cassazione su Mediaset. Perché per il 31 agosto il premier dovrà essere in grado di annunciare agli italiani che cosa il governo ha deciso sull'IMU, sull'IVA, sulla riforma fiscale e sulla riforma del lavoro. Quella data rende il governo Letta molto simile a uno yogurt. 

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