mercoledì 10 luglio 2013

BERLUSCONI, UNA QUESTIONE ITALIANA


di Massimo Colaiacomo


     La politica italiana si trascina nel sottosuolo della realtà e scava, come fa la talpa, cunicoli sempre più complicati dai quali, a differenza della talpa, non sa più come uscire. Silvio Berlusconi è la talpa della nostra storia recente, ma non ha scavato mai nessun cunicolo. Si è limitato a seguire quello da altri costruito, lo ha percorso fin dove poteva e ora deve prepararsi a percorrerlo anche dove non vuole. Il 30 luglio, quando la Cassazione si riunirà in udienza sulla vicenda Mediaset, sarà la deadline della Berlusconi's story? Potrebbe esserlo e no. La magistratura, come ogni rispettabile corporazione del nostro Paese, ha molti difetti e anche qualche pregio, a differenza delle altre corporazioni tutte e solo difettose. Nel caso specifico di Berlusconi, tutte le sentenze emesse e dai sostenitori del leader definite nei modi più inciprigniti, avevano ed hanno un solo significato: scuotere, svegliare la politica dal torpore in cui è precipitata, aiutarla a liberarsi dallo stato ipnotico in cui l'ha ridotta Berlusconi per ricostruire una sua autonoma, sacrosanta e democratica capacità decisionale.
     Invece, è accaduto il contrario. La politica e la sinistra sono rimasti imbambolati davanti allo spettacolo dei processi, e il vortice quotidiano di accuse contro Berlusconi l'ha trasformata in uno spettatore trasognato facendone così, una volta individuata la parte dei buoni e quella dei cattivi, il primo, cieco supporter della magistratura. Quando poi, risucchiata nelle sabbie mobili del giustizialismo trinariciuto ha cominciato a sentire il terreno mancare sotto i piedi, allora ha coniato la formula ipocrita "le sentenze si rispettano e non si commentano". Fino alla sua più recente evoluzione, ora che governa insieme a Berlusconi: "le vicende processuali di Berlusconi non incidono sul governo".
     L'Italia è un Paese allergico alla realtà dei fatti e la politica, sempre in cerca di qualche esorcista della realtà (ieri Berlusconi, oggi Renzi, domani si vedrà), stenta a riconoscere i contorni dei problemi. Come si ostina a fare da 20 anni, rubricando di volta in volta Silvio Berlusconi sotto la voce "vicende giudiziarie" oppure "caso clinico" (definizione della ex moglie Veronica Lario). Definire la vicenda di Berlusconi per quello che essa è, cioè una vicenda politica e dunque una vicenda di politica italiana, è un compito troppo arduo per una politica in perenne asfissia.
     Quella di Silvio Berlusconi è una vicenda politica nazionale e non ci sono giochi di prestigio per quanto abili in grado di esorcizzarla.  La Cassazione può confermare o annullare per vizio di forma la sentenza della Corte d'Appello di Milano: quale che sarà il verdetto esso non può cambiare in alcun modo i termini del problema. Il governo Letta non potrà non accusare il colpo di una sentenza di condanna per Berlusconi, perché sarebbe la condanna del leader di una parte politica che lo riconosce tale, insieme a circa 10 milioni di elettori.
     La magistratura non ha colpe per come ha proceduto l'infernale macchina mediatico-giudiziaria in questi vent'anni. Si è ritrovata alla guida di processi che dovevano essere politici per la semplice ragione che la politica ha rinunciato alla sua funzione di guida. Ha preferito accomodarsi sul sedile posteriore illudendosi che l'autista l'avrebbe portata a destinazione, cioè a Palazzo Chigi. Il fallmento politico della sinistra, sempre sconfitta e sempre minoritaria, potrebbe paradossalmente essere la riprova dell'autonomia dell'azione giudiziaria o dell'insipienza della sinistra stessa a sfruttare le ricadute politiche dei processi a Berlusconi. Enrico Letta è l'erede, il custode e il continuatore degli errori della sinistra sulla vicenda tutta politica di Silvio Berlusconi. Il leader del PdL aveva finora trascinato nella sconfitta una decina di leader avversari (Veltroni, D'Alema, Bersani, Franceschini, Rutelli). La sua uscita di scena per via giudiziaria non potrà non portarsi appresso anche il governo. E' inevitabile. 
     In democrazia, se esiste, non può resistere un quadro politico senza uno dei due pilastri fondamentali. E' scontato che dopo l'eventuale condanna del suo leader il PdL non potrà votare nessun altro governo né potrà esserci un altro governo senza essere prima passati dalle urne. Lo impongono le circostanze, lo vuole Matteo Renzi. Eventuali fuoriusciti dal PdL o dal movimento grillino non potrebbero dar vita a nessun esecutivo con un minimo di credibilità sui mercati. Anche questo, e forse questo più di altri, è il senso della bocciatura di Standard&Poor's sul nostro debito pubblico.
     

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