sabato 22 giugno 2013

DA PD-PDL GIOCO DEI TRE CANTONI SUL GOVERNO. MA LETTA SBAGLIA A TEMPOREGGIARE


di Massimo Colaiacomo


Fra Pd e PdL è in atto una guerra di posizione il cui esito, non scontato, potrebbe essere la crisi di governo. "Potrebbe" perché il PdL da solo non ha la forza, né l'interesse, a tirare la corda e aprire una crisi in autunno, con l'obiettivo di votare a novembre, presuppone due condizioni: l'impraticabilità di formule di governo alternative all'attuale; una relativa tranquillità dei mercati finanziari e quindi una condizione di non belligeranza della speculazione sul debito italiano. Esiste, anche se al momento rimane sullo sfondo, una terza condizione: la condiscendenza del Quirinale a una nuova interruzione traumatica della legislatura. E' vero, come ha notato qualche osservatore, che nessuna scissione dei gruppi grillini potrà essere di una tale entità da consentire la maggioranza Pd-Sel-Grillo evocata qualche tempo fa da Bersani. La vicenda assumerebbe però tutt'altra piega se il presidente Napolitano dovesse far pesare il diktat formulato all'atto di insediamento di questo governo: se anche stavolta si dovesse ripetere l'impietoso fallimento delle forze politiche sulle riforme lui sarebbe pronto a trarne le conseguenze. Cioè a dimettersi.
La minaccia delle sue dimissioni è l'arma più potente nelle mani di Napolitano per indurre alla ragionevolezza gli spiriti bollenti di quanti, soprattutto nel PdL, si agitano per troncare, con la legislatura, la persecuzione giudiziaria contro Berlusconi. E se Napolitano scompagina questi piani, con quale maggioranza sarebbe eletto il suo successore? I grillini, scarsi di numero per formare la maggioranza di governo tornerebbero decisivi per eleggere il nuovo Capo dello Stato, almeno dal quarto scrutinio, quando è sufficiente la maggioranza semplice.
Di queste cose deve averne ragionato il Cav con i suoi consiglieri. Con quelli che schiumano rabbia, e sono pronti a bombardare la legislatura, e con gli altri che fanno opera di moderazione alla luce della imprevedibilità del quadro istituzionale da qui a ottobre.
Il 2 luglio la Giunta del Senato deve votare sulla ineleggibilità di Berlusconi. Un appuntamento non si sa se più temuto da Berlusconi o dal Pd. Perché il partito di Epifani rischia di spaccarsi su un voto che ha il pregio di ricompattare le sparse truppe grilline. Sono già state tutte fatte le obiezioni, a partire da quella più semplice secondo cui è impossibile dichiarare ineleggibile un parlamentare da 20 eletto con numeri plebiscitari. Ma il rischio della divisione incombe sul gruppo Pd e al momento non è ancora chiaro se e come scongiurarlo.
Questo è soltanto lo sfondo, agitato quanto si vuole, di una vicenda politica che trova nel presente le cause maggiori delle fibrillazioni che percorrono la maggioranza. Se lasciate marcire in attesa di risposte fin qui mai arrivate, quello sfondo potrebbe diventare realtà con drammatica rapidità.
Letta e Saccomanni non sono fin qui riusciti a dare un'impronta all'azione dell'esecutivo nelle politiche di bilancio e fiscale. Troppe esitazioni su Iva e Imu, troppe timidezze da un ministro dell'Economia che dichiara "non rinvenibili" le risorse necessarie per appagare le rivendicazioni elettorali del PdL in materia fiscale. Curioso che un ministro parli della propria politica limitandosi a osservare che non ci sono soldi. In enre, un ministro viene messo sulla poltrona di via XX Settembre proprio per trovare quella materia preziosa ch anto scarseggia. Ma né da Saccomanni né da Letta è fin qui venuto un colpo d'ala per smuovere le acque. Si sono adagiati nel quieto vivere e rinviato a miglior tempo le risposte drammatiche attese dagli italiani.
Lo stesso provvedimento per l'occupazione giovanile, con una detassazione timida per le imprese che assumono, o il fondo di finanziamento per l'innovazione delle imprese, sono poco più che pannicelli caldi per la grave situazione sociale dell'Italia. Senza peraltro considerare un aspetto quasi grottesco: assumere giovani per produrre una maggiore quantità di beni e merci, presuppone l'esistenza di un mercato dei consumi in grado di assorbirli. Il che, francamente, non è la condizione presente dell'Italia.
A Letta è mancato il coraggio invocato pià volte da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: tagliare la spesa pubblica, ma tagliarla in modo energico e senza usare il bisturi. Da lì soltanto possono venire le risorse per un riordino generazionale del fisco e per un alleggerimento complessivo della pressione fiscale. Più soldi in circolazione significa anche maggiori consumi e in questo caso le imprese possono assumere senza neppure il biosgno di incentivi fiscali.
Su questo versante, però, Letta sta giocando la stessa partita sbagliata giocata dal suo predecessore Monti. E' evidente che dietro tanta ritrosia ad aprire il capitolo dei tagli di spesa c'è il non possumus, mai apertamente pronunciato ma che aleggia nell'aria, del Pd. E su questo braccio di ferro Letta rischia di giocarsi il residuo capitale di credibilità. Anche perché i temi economici sono il diversivo scelto da Berlusconi dietro il quale nascondere i colpi arrivati e in arrivo da parte della magistratura.

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