sabato 27 luglio 2013

ITALY BURNING IN AUTUMN, MA NON PER COLPA DI MERKEL O DELLA CATTIVA SORTE


La spesa pubblica è il Vello d'oro della politica. Nessuno ha osato e mai oserà squarciare la coltre di ipocrisia che circonda l'ultimo e più resistente dei Paesi statalisti dell'Occidente. Senza tagli immediati della spesa, nessuna terapia potrà salvare l'Italia dall'intervento della Troika (Bce, Fmi, Ue). E forse sarà un bene che sia così  


di Massimo Colaiacomo

Jürgen Stark, ex capo economista della Banca centrale europea che ha lasciato nel 2011 per protesta contro la politica di acquisto dei bond dei Paesi in crisi, sarà anche un falco come ama raffigurarlo l'informazione dei Paesi in crisi, ma la sua profezia sull'autunno nero che attende l'Italia è meno sconclusionata di come appare a certi ottimisti di casa nostra. Con la sua politica del denaro facile "Draghi - ha detto Stark al Corriere della Sera - ha comprato tempo ai governi europei, che però non l'hanno sfruttato". "Comprare tempo" è l'espressione più azzeccata per spiegare che cosa è accaduto in Europa dopo il discorso, nel luglio 2012, con cui Draghi annunciava che la Bce "avrebbe fatto qualsiasi cosa in difesa dell'Euro". Il risultato fu il varo dell'Omt (Outright monetary transaction, cioè acquisto illimitato di bond per impedire la crescita del differenziale fra i tassi decennali dei Bund tedeschi e quelli dei titoli pubblici equivalenti di Paesi come Italia e Spagna).
La Bce ha caricato la pistola e i mercati, cioè gli hedge found, non hanno voluto verificare se è carica a salve o spara per davvero. Questo momento, però, potrebbe essere vicino o meno lontano di quanto sembra. Per una serie di ragioni, la più importante delle quali è una sola: dietro lo scudo europeo alzato da Draghi, non ha preso vita nessuna delle riforme strutturali (lavoro, pensioni, sanità, tagli della spesa pubblica e riforma delle sue procedure) invocate e inutilmente attese dai mercati. Nasce da qui la tentazione dei mercati di mettere alla prova la forza di quello scudo. Ove mai dovesse accadere, le luci in fondo al tunnel che Saccomanni, Letta e compagnia cantando intravvedono da mesi, si spegnerebbero di colpo.
Per essere più chiari: le rivolte, non si sa se da Grillo temute o più auspicate, forse non avranno l'aspetto di masse turbolente che scendono in strada con i forconi, ma certo potrebbero assumere la forma di tensioni sociali non facili da controllare. La caduta del PIL continua e all'ultima revisione ha subito un ulteriore aggravamento. Appare molto improbabile, messe così le cose, rivedere il segno più nel 2014.
Che fare? L'interrogativo che Lenin si poneva nel 1917 è quanto mai attuale in Italia. Il governo Letta, figlio di una coalizione di necessità, si trastulla tra misure minimaliste e auspici. Se si pensa all'esultanza fuori luogo per aver introdotto la flessibilità contrattuale per i circa 800 dipendenti che lavoreranno da qui al 2015 all'Expo non c'è motivo di nutrire soverchie speranze. Quel modello andrebbe esteso a tutta l'Italia, cominciando naturalmente dal pubblico impiego.
Anche l'esecutivo in carica, come quelli di Monti, di Berlusconi, di Prodi ha annunciato che interverrà sulla spesa pubblica. La frustrazione dei mercati, e dunque la loro aggressività, nasce dalla certezza che questo annuncio, come gli altri precedenti, non sarà seguito da alcun fatto o atto che possa incidere anche solo per un centesimo sulla spesa.
La rincorsa divenuta affannosa per mettere in vendita il patrimonio immobiliare dello Stato (con Saccomanni che ha accennato, salvo fare marcia indietro, alla possibilità di collocare sul mercato sia pure come "collaterali", cioà garanzie, le quote di Enel ed Eni) è purtroppo la conferma dello spirito imbelle che anima il ceto politico e la maggioranza che sostiene il governo. Tutti fingono di non capire che abbattere il debito di 100 o 200 miliardi, lasciando immutate le procedure di spesa, può fornire un sollievo temporaneo alla finanza pubblica lasciando però irrisolti i nodi strutturali che la soffocano. Tutti sanno che senza un'opera di destatalizzazione imponente dell'economia non ci sarà alcun futuro per l'Italia, ma nessuno ha fino a oggi osato far seguire comportamenti coerenti alle vaghe enunciazioni fatte in materia.
Il governo Letta è atteso a una sfida mortale in autunno: superato lo scoglio delle elezioni generali in Germania (22 settembre) sarà difficile per chiunque immaginare toni e comportamenti più concilianti da parte di Berlino. Cioè dalla capitale che esattamente nel Ferragosto di 10 anni fa, con il governo Schröder, varò il pacchetto più imponente di riforme strutturali il cui significato ultimo era un maggior concorso di spesa per i contribuenti nei servizi della sanità, della scuola e dei trasporti e una ritirata molto ampia dello Stato dall'economia.
Sempre sul Corriere della Sera di oggi, Francesco Giavazzi ha rinnovato il suo appello al governo a prendere coraggio e intervenire sulla spesa pubblica con tagli programmati di 50 miliardi all'anno e la destinazione di somme tanto importanti agli sgravi fiscali per lavoratori e imprese. Da Giavazzi, come da Alesina, sono arrivati stimoli frequenti in questa direzione, rimasti, purtroppo, soltanto auspici accademici e caduti nel silenzio più cupo da parte del titolare dell'Economia. Il quale continua a gingillarsi intorno al dilemma se restituire 5 o 4 o 10 miliardi alle imprese sapendo che i debiti maturati dallo Stato ammontano a oltre 100 miliardi e le piccole imprese, i laboratori artigianali continuano a spegnersi al ritmo di 300-400 al giorno.
La difficoltà principale che impedisce al governo di cogliere in tutta la sua drammaticità la reale situazione dell'Italia risiede ancora una volta nell'insufficienza del quadro politico. In quale altro Paese se non in Italia si può immaginare il principale partito della maggioranza, il Pd, impelagato in lotte intestine sul regolamento congressuale mentre tutto intorno divampano le fiamme di crisi che rischia di inghiottire il futuro di un paio di generazioni?
E in quale altro Paese, messe così le cose, il secondo partito, il PdL, rimane in stand by in attesa di una sentenza della Cassazione che segnerà il destino del suo leader e forse dell'intero quadro politico?
Si spiega, allora, perché gli ultimi sondaggi danno il PdL in forte risalita, oltre il 28%, e il Pd in caduta libera sotto il 23%. Il PdL sale, mentre sta fermo attorno a Berlusconi, il Pd scende mentre ribolle per le lotte intestine. Il PdL è stato fin qui percepito come un elemento stabilizzatore intorno al governo, il Pd come invece una spina nel fianco di Enrico Letta. Sarà pure un gioco degli specchi che rimandano immagini deformate e ingannevoli, ma questo è lo stato dell'arte.   

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