venerdì 3 luglio 2015

GRECIA, COMUNQUE FINIRÀ L'EUROPA NON SARÀ PIÙ LA STESSA

di Massimo Colaiacomo


     Le tifoserie pro e anti-Tsipras vivono nell'attesa spasmodica del voto. Il referendum voluto dal premier ellenico è destinato a cambiare, e a cambiare in profondità, le logiche che hanno fin qui tenuto insieme i 28 Stati dell'Unione. Il referendum greco è uno spartiacque fra un presente che va stretto a molti Stati, in sofferenza per rispettare vincoli e parametri considerati, molto a torto e poco a ragione, intollerabili, e un futuro che nessuno è fin qui riuscito a immaginare se non come vaga propensione a una più forte crescita per riassorbire più rapidamente la disoccupazione accumulata in questi anni di crisi e di deflazione.
     Naturalmente questo è solo un aspetto della partita politica complessiva che si gioca in Grecia ma il cui significato investe tutta l'Europa e, in particolare, quei Paesi come Spagna e Portogallo, che, a differenza della Grecia, hanno somministrato le ricette dolorose della trojka economica e ne hanno ricavato alcuni benefici economici anche se non subito tradotti in benefici sociali. La vittoria del sì al piano di rientro del debito avrebbe un valore politico notevole, perché significa che il sentimento di appartenenza all'Europa va oltre la moneta che si ha nel portafoglio ma coincide piuttosto con la consapevolezza di avere un destino comune. Sotto un altro aspetti il "sì" dei greci avrebbe un alto significato simbolico per un Paese come la Spagna, chiamato alle urne in novembre, perché il premier Mariano Rajoy si vedrebbe confortato nelle sue scelte politiche che gli sono costate fino a oggi diversi punti percentuali nel consenso elettorale. Accettare il piano dei creditori da parte dei greci, consente a Rajoy di avere una carta formidabile contro la Syriza spagnola, cioè il movimento di Podemos, trionfatore alle ultime elezioni amministrative.
     La vittoria di Tsipras, e dunque del "no", avrebbe implicazioni significative sul piano interno e su quello internazionale. Anche a voler tralasciare gli studi sfornati in queste ore dalle agenzie di rating sui costi che questo esito avrebbe per i singoli Paesi europei, la vittoria del "no" avrà come prima conseguenza un irrigidimento dei creditori verso Atene. Per Fondo monetario internazionale, Bce e Commissione economica verrebbe meno il terreno per un accordo. Draghi, in particolare, come dovrà regolari con il quantitative easing e con il flusso di liquidità non ancora bloccato verso le banche elleniche? Come continuare a tenere in vita artificiale la Grecia, dopo che il default tecnico è stato già accettato sui mercati, in assenza di un piano di riforme strutturali irrinunciabili?
     Sono molte le incognite legate a una vittoria del "no", ma poche sono le certezze legate alla vittoria del "sì". L'idea che l'Europa dovrà rimettere mano ampiamente ai trattati che l'hanno fin qui costruita e tenuta in piedi si è fatta strada in tutti i governi, a cominciare da quello tedesco. Il "piano dei cinque presidenti" (Jean-Claude Juncker della Commissione europea; Mario Draghi della Bce; Jeroen Dijsselboem dell'Eurogruppo; Donald Tusk dell'Unione europea; Martin Schulz del Parlamento europeo) prevede una forte accelerazione nelle politiche di integrazione ma, soprattutto, indica un obiettivo ambizioso: avere, entro il 2025, un ministro del Tesoro europeo.
     Questo piano è stato reso noto soltanto pochi giorni fa, quando le trattative fra Grecia e Ue segnavano il passo e lasciavano intravvedere un precipitare della situazione. È il colpo d'ala necessario per ridare una prospettiva all'Europa. Se sarà sufficiente è presto per dirlo. Indicare un obiettivo, e i tempi per raggiungerlo, ha però un grande significato politico inequivocabile: le politiche di convergenza messe in atto nei singoli Paesi devono accelerare e i parametri, buoni o cattivi che siano, vanno rispettati o comunque resi produttivi entro il 2025. Comunque finirà il referendum, l'Europa dopo il 5 luglio 2015 non potrà più essere la stessa vista fino a oggi.
     La politica italiana, il centrodestra in particolare, ha fino a oggi vacillato rispetto alla vicenda greca. A parte la sinistra Pd e quelli che ne sono usciti, il centrodestra ha riservato le sorprese maggiori in fatto di antieuropeismo, almeno fino alla parziale e tardiva correzione imposta da Berlusconi con la lettera al "Giornale". L'idea di essere trainati dall'antieuropeismo di Matteo Salvini, fino allo scontro con il PPE, di cui pure Forza Italia fa parte, ha allarmato Berlusconi anche se non ha cambiato di una virgola la posizione del segretario leghista il quale come massima concessione al suo alleato ha scelto di stare zitto per qualche ora, almeno fino al risultato elettorale. Una vittoria del "no" verrebbe salutata da Salvini con il giusto entusiasmo di chi sa possibile, da quel momento, di poter dominare incontrastato sulle truppe sparse di Forza Italia. La vittoria del "sì" al referendum porterà, al contrario, a una inevitabile resa dei conti nel centrodestra fra i populismi variamente denominati (Lega, Fratelli d'Italia e parte di Forza Italia) e i riformisti di impronta liberale o conservatrice. Ma consentirebbe, finalmente, di capire che cosa è il centrodestra italiano e se ha ancora qualche chance di tornare a essere forza di governo.

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