venerdì 28 febbraio 2014

(POST DI VENERDÌ, 28 FEBBRAIO 2014) CAPITALE CORROTTA, NAZIONE INFETTA

RENZI HA SBAGLIATO, NIENTE PIÙ TRIPPA
ALTRIMENTI I GATTI NON ACCIUFFANO IL TOPO


di Massimo Colaiacomo

"Capitale corrotta, Nazione infetta": era il titolo diventato famoso con cui l'Espresso di Arrigo Benedetti presentava l'inchiesta di Manlio Cancogni sul sacco edilizio di Roma. Era il 1955. La corruzione e il sacco edilizio sono oggi gli stessi di 60 anni fa. Ad essi si è aggiunto, coda inevitabile, il saccheggio delle ultime riserve di civismo di una città che ne ha sempre avuto molto poco. Roma non è corrotta per istinto o per vocazione dei suoi abitanti. Qualunque altra città eletta sede di corti papali, principesche o democratiche non sarebbe sfuggita al suo destino.
La vicenda del decreto "salva Roma" è in qualche misura la metafora della storia moderna della Capitale. Con l'eccezione di Ernesto Nathan, il sindaco straordinario che guidò la Capitale dal 1907 al 1913 e primo sindaco (e, chissà, forse unico) estraneo agli interessi dei proprietari terrieri, il Sindaco della Capitale è stato sempre visto come un mediatore accorto di interessi: funzione sicuramente necessaria per ogni sindaco, ma a Roma resa esclusiva, e dunque rischiosa, dalla corposità prevalente degli interessi terrieri.
Governare Roma ha significato per tutti i Sindaci, di qualsiasi colore politico, assecondare e "aggiustare" le esigenze dei proprietari di grandi aree fabbricabili. E rendere fabbricabili quelle che non lo sono è uno dei poteri maggiori, e una delle principali fonti di corruttela, esercitati dalla Giunta capitolina.
Per dire che a Roma il governo dei servizi sociali, del trasporto pubblico, delle scuole materne o della pulizia delle strade non sono esattamente in cima ai pensieri di chi amministra. Essi sono temi per lo più accessori, buoni da cavalcare sotto le elezioni. In campagna elettorale, i candidati sindaci incontrano le rappresentanze delle diverse categorie sociali che a Roma più che altrove hanno la forza temibile delle corporazioni. I costruttori e i "palazzinari" sono la prima e più importante categoria alla quale si rivolge ogni candidato speranzoso di salire sul Campidoglio e indossare la fascia tricolore. Cosa c'entra tutto questo con il default del Comune evitato dal presidente Renzi con una indulgenza i cui danni ricadranno sui cittadini romani? C'entra a tal punto da essere il cuore stesso dei problemi di Roma.

La Corte burocratico-impiegatizia cresciuta negli anni è il prezzo pagato da ogni Sindaco per integrare, con un consenso costosissimo per le casse dello Stato, il sostegno garantito dalle corporazioni degli affari, ricche abbastanza per finanziare la campagna elettorale di tutti i candidati ma non sempre provviste dei bacini di voti necessari per garantirne l'elezione. Così si spiegano i 62 mila dipendenti distribuiti fra Comune e Società, direttamente o indirettamente controllate dal Comune stesso. Il "generone romano", fatto di "alti papaveri" della burocrazia ministerialecapitolina, regionale e provinciale, è nato così e si è sviluppato nel tempo: una metastasi diffusa e tentacolare, ma non particolarmente aggressiva finché la spesa pubblica scorreva a fiumi e non c'erano tetti o vincoli europei. Anche il "generone" si è corrotto col tempo e ha dovuto pagare prezzi sempre più pesanti all'avanzare della "democrazia spartitoria" e agli appetiti antichi degli esclusi. Come altrimenti spiegare il germinare di Consigli di Amministrazione, di Società affamate di presidenti, direttori, consiglieri. Per tutti loro erano pronti generose indennità e gettoni di presenza. Musei, monnezza, scuole, trasporti, acqua (meglio pubblica: così "se magna e se beve") luce. Un gran carosello di opportunità e di ricchezza rubata allo Stato e incamerata dai moderni Lanzichenecchi.

Per tornare a Ernesto Nathan. Quando, nel 1911, un funzionario del Campidoglio gli sottopose il libro del bilancio per le opportune verifiche, l'attenzione del Sindaco si fermò su una voce: "frattaglie per gatti". Chiese spiegazioni al funzionario il quale, nel modo più naturale, fece osservare a Nathan che la cospicua colonia felina del Campidoglio era indispensabile per tenere lontani i topi che altrimenti avrebbero divorato i documenti custoditi negli uffici e negli archivi capitolini. Nathan prese la penna e cancellò la voce dal bilancio, spiegando al suo esterrefatto interlocutore che d'allora in avanti i gatti del Campidoglio avrebbero dovuto sfamarsi con i roditori che avevano lo scopo di catturare e, che nel caso non ne avessero più trovati, sarebbe venuto a cessare anche lo scopo della loro presenza. Da questo episodio sarebbe derivato il detto romanesco Nun c'è trippa pe' gatti.

Il decreto "salva Roma" (o, secondo i malevoli, "salva Marino" ma, secondo i renziani, "inguaia Marino") nasce con lo scopo di togliere l'eccesso di trippa a buon mercato di cui hanno fino a oggi goduto i potenti roditori politici che si sono avvicendati in Campidoglio. Risanare Roma non è semplice. Riempire i serbatoi vuoti del civismo e dell'etica non è operazione agevole in un'epoca in cui il populismo è il filo conduttore di ogni strategia politica e amministrativa. Se i romani non hanno nulla da dire sul luridume dei mezzi pubblici dove chiunque può salire senza pagare il biglietto sicuro di farla franca. Se i romani fanno slalom nella sporcizia delle strade e aggirano buche dell'ampiezza dei laghi Masuri. Se i romani si muovono al buio delle loro periferie abbandonate, appagati di raggiungere il Centro per una serata divertente. Se tutto questo viene accettato, come è stato accettato per decenni, allora il decreto "salva Roma" è stato l'ennesimo errore del governo nazionale.

Chi ama Roma non può non desiderare il fallimento del suo Comune. Un fallimento dalle conseguenze sociali drammatiche e con gravi disagi per tutti i cittadini è la sola arma capace di scuotere dal torpore secolare una Capitale che non merita il destino per essa immaginato dal ceto politico e troppo a lungo condiviso dai suoi abitanti.   



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