martedì 11 febbraio 2014

RENZI RICAMBIA VERSO E TORNA SULLA VECCHIA STRADA

di Massimo Colaiacomo

La fretta di arrivare a palazzo Chigi ha il sopravvento sulle ambizioni di cambiamento radicale dell'Italia e Matteo Renzi dovrà congelare, non si sa per quanto, i propositi che lo avevano portato a conquistare la segreteria del Pd.
Sta accadendo tutto molto in fretta anche se tutto era stato molto previsto. Il paragone con la segreteria di Walter Veltroni e la crisi del governo Prodi era stato fatto dal primo giorno della segreteria Renzi. Ma le due situazioni non sono esattamente sovrapponibili. La crisi di Prodi nacque in Senato, allorché il governo venne sfiduciato e sfociò nel voto anticipato del 2008. La vicenda di oggi è più somigliante a una crisi tipica della Prima Repubblica, allorché il nuovo segretario della DC riorganizzava gli equilibri di potere anche in funzione del governo. E in questa somiglianza è il primo segno di quella che potrebbe essere presto la sconfitta del rinnovatore Renzi. Il quale non prende la guida del governo in quanto leader del partito unico di maggioranza (come accade per i laburisti o i conservatori, come è accaduto fra Thatcher e Major o fra Blair e Brown), ma soltanto per un mutato equilibrio dei rapporti di forza nel Pd con le altre forze politiche che assistono in un ruolo ancillare. Con una differenza ulteriore fra Roma e Londra: da noi tutti i presidenti della Repubblica hanno sempre biasimato le crisi extraparlamentari. Come si vede un'anomalia chiama l'altra.
A complicare il quadro ci sono poi altre due questioni. La prima: una volta divenuto titolare della guida del governo, riuscirà Renzi a tenere separate le due maggioranze, quella delle riforme da quella di governo, senza dover accettare compromessi sulla prima per mantenere in piedi la seconda? Quando a inizio gennaio Renzi ha preso in mano il boccino delle riforme, aveva messo in chiaro che per cambiare l'Italia avrebbe dialogato con tutte le forze politiche e a Letta aveva rivolto l'invito perentorio a non mettere il governo in mezzo su una questione tipica del Parlamento. Come si vede, la realtà è sempre pronta a ribaltarsi e il sentiero riformatore, visto da palazzo Chigi, si fa molto più stretto e tortuoso per Renzi.
L'altra questione riguarda gli attuali soci di maggioranza, in particolare il Nuovo centrodestra. Alfano aveva rotto con Forza Italia sulla base di un valido motivo politico: assicurare il governo del Paese, e assicurarlo dopo il voto di decadenza da senatore di Berlusconi, poiché la maggioranza di "larghe intese" manteneva intatte le sue ragioni politiche. Con l'eventuale staffetta Letta-Renzi, però, la natura e i presupposti politici della maggioranza cambiano in profondità: le intese resteranno larghe, ma se a palazzo Chigi va un premier che ha sempre sostenuto di "non c'entrare nulla con Alfano e Letta", e, soprattutto, va un premier sulla base non più di un programma concordato fra PdL e Pd, ma scritto di suo pugno e avallato dagli organi del solo Pd, sarà difficile per Alfano motivare una rinnovata fiducia sulla base di un programma riscritto in profondità.
Una terza questione riguarda il ruolo del Capo dello Stato. Napolitano si appresta ad avallare una "staffetta extraparlamentare", il che presuppone quanto meno che non ci sia alcun mutamento nella composizione della maggioranza futura. Diversamente, si sarebbe dovuta aprire una crisi formale di governo, con le dimissioni del presidente del Consiglio, le consultazioni al Quirinale di tutte le forze politiche e quindi il conferimento di un incarico per la nascita di un nuovo esecutivo con una maggioranza nuova anche solo perché più ampia.
La crisi di Prodi, nel 1998, nacque in Parlamento, esattamente come nel 2007. D'Alema rassegno le dimissioni dopo la cocente sconfitta alle elezioni regionali del 2000. Ciampi le respinse e dopo le consultazioni affidò l'incaricole a Giuliano Amato. Da notare che il solo Romano Prodi ha seguito il percorso della crisi parlamentare.

Napolitano si troverà, una volta ottenuto il chiarimento chiesto al Pd, davanti a un bivio: avallare il cambio di guardia a palazzo Chigi passando per una crisi formale, oppure Renzi si insedierà seguendo i vecchi riti della Prima Repubblica? Non è questione di lana caprina, perché in gioco è quella repubblica parlamentare sempre ostentatamente difesa, salvo metterla fra parentesi quando maiora premunt. Questo passaggio è per Napolitano molto più insidioso del presunto scoop di Alan Friedman     

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