sabato 7 settembre 2013

BENE EVITARE LA CRISI, MA PER FARE CHE COSA?


di Massimo Colaiacomo

Un crisi di governo sarebbe una punizione severa per il Paese che sarebbe chiamato nuovamente nella trincea dello spread, e i sacrifici fin qui fatti (e quelli da evitare, come l'IMU) sarebbero vanificati, insieme alla riconquistata credibilità internazionale. Tutto giusto e innegabile. Finanche tutto vero. Dunque, avanti Letta. Bene. Per fare che cosa? Per intraprendere e sviluppare quale politica economica? Per ridurre il cuneo fiscale (gradualmente, si premura di chiarire il ministro Saccomanni) con quali risorse? Per abbassare le tasse tagliando quali spese?
Dagli anni '70, cioè con una Repubblica già ampiamente consolidata nella coscienza del Paese, la condizione emergenziale si è impadronita della lotta politica, ne ha dettato i temi, le modalità, ne ha scandito il respiro. Dal terrorismo all'inflazione, dallo Sme al taglio della scala mobile, dall'adesione a Maastricht a Tangentopoli, mai una volta che la politica abbia affrontato uno solo di questi passaggi con le armi della dialettica civile e ordinaria. Sempre, in ogni circostanza, si è respirato il pathos proprio di un Paese percepito all'ultima spiaggia.
La sindrome emergenziale è dunque un virus ben annidato nelle fibre più intime della vita pubblica e della storia repubblicana. Il nemico sempre alle porte contro il quale opporre una ferma, convinta e incrollabile resistenza è il leit motiv della politica italiana. La stabilità sempre invocata come una terapia miracolosa, scambiata per il fine invece che per lo strumento che consente di operare, incidere dove occorre, rimuovere, cambiare, innovare in profondità. Mai. Primur stabilitas deinde vivere. I governi servono per governare, cioè fare scelte, dolorose e impopolari nel tempo che ci tocca, non devono preoccuparsi della stabilità che non c'è ma guardare semmai alla stabilità che potrà venire dalle scelte che sanno e hanno il coraggio di compiere.
Enrico Letta rischia di essere risucchiato nella peggiore delle tradizioni democristiane. Per uno di quei sofismi che in Italia trovano terreno fertile più che altrove, la stabilità fin qui conquistata dall'esecutivo di "larga coalizione" ma di "corte intenzioni" ha coinciso con l'immobilità. Qualcuno sa dire che cosa è cambiato che sia davvero visibile e tangibile? Certo, ci sono 12 mila dipendenti in più nelle scuole e, nell'arco di tre anni, saranno stabilizzati 35 mila medici precari. Giusto venerdì 6 settembre, il Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti ha reso noto l'andamento dell'occupazione nel mese di luglio: +157 mila nuovi occupati, di cui 145 mila nel settore privato e 12 mila in quello pubblico.
In Italia l'unico settore che assorbe occupazione era e rimane quello pubblico. Quello privato è stato stremato dalla tempesta di tasse che piovono sulle nostre teste come meteoriti nella notte di San Lorenzo. Domanda al ministro Saccomanni: come sono state trovate le risorse per 47 mila nuovi dipendenti pubblici che saranno a carico dell'erario (non importa se statale o regionale, a pagare saranno sempre i contribuenti) per i prossimi 30 anni per un costo stimabile intorno ai 45-50 miliardi di euro? E come mai si trovano risorse simili e non si trovano 4 miliardi per eliminare l'IMU? Dal PdL, nato, come Forza Italia, dichiarando una schietta identità liberale e liberista, quali voci contrarie si sono levate contro una simile spalmata di spesa pubblica per i prossimi decenni? Anche da quel versante si è colto un silenzio cimiteriale.
Evitare la crisi di governo è la condizione preliminare per governare. Di crisi evitate se ne contano a centinaia rispetto alle poche veramente realizzate. Ma se si prova a fare il bilancio del buono che ne è venuto al Paese temo che molti "stabilizzatori", per dovere istituzionale, come Napolitano, o per convenienza personale, come Berlusconi, preferirebbero di gran lunga una nuova crisi. Per fare che cosa, però, non si sa perché la giostra riprenderebbe esattamente come prima.

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