venerdì 8 marzo 2013

LA REPUBBLICA COMMISSARIATA

DALLA COSTITUZIONE MATERIALE
AL PRESIDENZIALISMO MATERIALE

     Mettere il Paese al riparo dal rischio dello scontro istituzionale. E' la formula magica che nella Repubblica della consociazione - quella fatta di guerre minacciate e mai combattute come di tregue respinte o mai offerte - da sempre sigilla la pax temporanea della politica al prezzo di qualche piegamento delle istituzioni e della Costituzione.
     Aver letto le cronache politiche sui giornali di stamane è stato quanto mai istruttivo. Le ipotesi sugli accartocciamenti della Costituzione ormai non conoscono più freni inibitori. Si va dall'idea di Pietro Ichino (ma lui è un giuslavorista, pazienza), per un breve governo guidato da Giorgio Napolitano (sic!), alla riconferma a tempo dello stesso per tutelare, nella veste di Lord Protettore, l'eventuale "governo del presidente". Il tutto per evitare "il rischio di scontro istituzionale" e un ritorno quanto mai improvvido alle urne.
     Da qui all'avvio delle consultazioni formali al Quirinale la fantasia del genio domestico avrà modo di partorire altre e più avventurose proposte di soluzione per la formazione dell'esecutivo. Nel presupposto che la sua nascita sia un atto dovuto, non costituzionalmente obbligato ma necessitato per via del semestre bianco che congela il potere presidenziale di scioglimento delle Camere.
     Un governo, comunque: è l'imperativo da cui parte il Capo dello Stato per affrontare lo slalom fra i paletti stretti posti dai partiti e dal vincitore-quasi-sconfitto che è il Pd. Il tentennante Bersani ha sfumato l'aut-aut: o si governa con Grillo o si torna alle urne. Ora è un aut-poi si vedrà. Insomma, la via maestra rimane quella tracciata, ma se risultasse occlusa Bersani, come gli altri protagonisti, si rimetteranno nelle mani del Capo dello Stato per navigare in mezzo alla nebbia fitta.
     Napolitano ha insistito ancora oggi sulla necessità per le forze politiche di mettere la coesione nazionale in cima a ogni loro scelta. Una formula che nel recente passato è servita come grimaldello per aprire la porta al governo "tecnico" di Monti, esperienza irripetbile a giudizio del Pd. Per il presente, invece, la stessa formula è di più incerta e fumosa realizzazione. Il governo di personalità "trasversali", di assoluta competenza e staccate quanto più possibile dai partiti (trasversali e distaccate: combinazione difficile!) è la formula suggerita da quell'attempato "ragazzo di Salò" che è Dario Fo. Con il voto di fiducia dato da chi? Da Grillo, no. Dal Pd e, forse, da Mario Monti. Con quale rotta programmatica? Decisamente puntata sull'Europa e sul rispetto degli impegni presi a suo tempo dal governo Berlusconi. Un esecutivo simile dovrebbe poggiare sui voti di Beppe Grillo, pronto a lanciare un referendum sul web per decidere se l'Italia deve restare nell'Euro ...
     Le contraddizioni di una simile formula sono destinate a moltiplicarsi a mano a mano che si procede.  Una si impone però sulle altre: il sistema politico, riottoso giustamente al governo tecnico perché prefigurava una sospensione della democrazia e altre nefandezze simili, come può accettare, all'indomani delle elezioni politiche generali, di sostenere un governo scolorito, di personalità esterne alla politica? Questa strada non conduce necessariamente a un ulteriore livello di delegittimazione della politica stessa? Non segna forse la vittoria della protesta che finisce così per sequestrare lo spazio di scelte e di decisioni proprie della politica?
     I voti grillini sono tre volte superiori a quelli presi a suo tempo dalla Lega di Bossi. Non solo: i consensi leghisti erano il premio degli elettori più che a un partito a un sindacato territoriale. I voti a Grillo sono invece una protesta generale, che si estende in maniera più o meno uniforme da Nord a Sud. Sono una contestazione del sistema alla radice. E la politica non può immaginare di rispondere con qualche pannicello caldo, tipo ritocchi o riformetta elettorale. A una crisi del sistema democratico la politica, se da qualche parte conserva un briciolo dell'orgoglio e della dignità della sua missione, deve rispondere con riforme di sistema. Crisi di sistema significa appannamento se non vera e propria delegittimazione della fonte dell'autorità. Quindi la Repubblica agonizzante ha bisogno di trovarsi subito un presidente che sia eletto dal popolo che trasferisce così la propria sovranità a una persona. Di un Parlamento che sia eletto lontano dai partiti, e dunque con una ritrovata autonomia decisionale rispetto alla partitocrazia. Un Parlamento così può eleggerlo soltanto il popolo scegliendo i candidati in collegi maggioritari a doppio turno o, meglio ancora, con il maggioritario secco a turno unico.
     L'Italia abituata alle liturgie e ai riti di una Costituzione vecchia e consunta, brutta nei principi e peggio ancora nei titoli sull'organizzazione dello Stato, vaga smarrita fra la lettera della Costituzione, senza aver mai capito bene quale fosse, e la sua concreta e materiale applicazione. Così il coro degli anti-presidenzialisti, sempre pronti a scendere in piazza contro le minacce oscure alla democrazia, accetta senza colpo ferire il presidenzialismo materiale e dunque immorale, perché privo di regole, ma rimangono sempre in trincea in nome dell'antifascismo.   
     Pochi si avvedono però delle minacce che incombono non tanto sulla democrazia quanto sulla Repubblica, che ne è il presupposto. La democrazia non si salva ricorrendo agli espedienti del momento. Con questi si può mettere in piedi un governetto per fare qualcosa. Ma sono i partiti gli unici attori in grado di assumere le decisioni radicali e, va detto, drammatiche ma inevitabili per salvare non genericamente il Paese ma le libertà repubblicane.  
     

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