lunedì 10 giugno 2013

NON BASTA PIÙ BERLUSCONI, CENTRODESTRA È ALLO SBANDO



di Massimo Colaiacomo

     La sconfitta del centrodestra alle elezioni amministrative è netta, bruciante e non ammette repliche. Essa segnala il fallimento politico di un ceto dirigente inadeguato e incapace di interpretare la fase politica che si è aperta con il governo Letta. I candidati sindaco e le liste erano infarcite di personale politico davvero miserrimo: analfabeti della politica, improvvisatori e in qualche caso avventurieri. 
     La partita dei ballottaggi si è chiusa nell'unico modo possibile, cioè con la vittoria del centrosinistra in tutti i Comuni capoluogo. E' vero, l'astensionismo è stato ancora più elevato che nel primo turno e questo fatto appanna la vittoria colta dai candidati del centrosinistra. Pensare al sindaco di Roma, Ignazio Marino, eletto da poco più del 24% degli aventi diritto al voto è qualcosa che deve far riflettere tutti, vincitori e sconfitti. Il doppio turno ha contribuito a tener lontani dalle urne tutti quegli elettori grillini che non avevano il loro candidato da votare.
     Si tratta di osservazioni ovvie, ma in una stagione politica così distratta anche le ovvietà meritano di essere ricordate.
     Quale significato politico attribuire a questo turno amministrativo? E quale riflesso potrà eventualmente avere sugli equilibri di governo? Sono le due domande alle quali i partiti sono impegnati da stasera a trovare una risposta.
     Per il PdL, come si è detto, è stata una débâcle senza precedenti. Tutti i suoi candidati sono stati bocciati in modo netto. A poco vale consolarsi con la "quasi vittoria" a Siena, roccaforte della sinistra, dove il candidato del PD l'ha spuntata per il rotto della cuffia. Ma Siena, si sa, è andata alle urne nelle condizioni straordinarie determinate dalla vicenda Monte dei Paschi.
     La sconfitta del PdL è soltanto il punto d'arrivo di un partito incapace di qualsiasi rinnovamento. Arroccato intorno a Silvio Berlusconi, il PdL si è confermato una macchina elettorale altamente efficiente nelle elezioni generali. Quella macchina, però, sparisce quando si tratta di eleggere sindaci e consiglieri. Un partito verticistico, fatto da un leader circondato da un manipolo di adulatori in continua lotta fra loro per raccogliere un'eredità politica quanto mai incerta. Quel partito ha dimenticato che cosa significa consumare le suole delle scarpe camminando e incontrando cittadini.
     Il PdL disegnato da Berlusconi dopo il voto di febbraio è un partito che ha perso ogni smalto elettorale. Il Cavaliere incalza il governo con abilità, tira Enrico Letta per la giacca e lo incita a una prova di forza con la Merkel. Con ciò dimostrando agli italiani che non ci sono governi né maggioranze ampie tali da smuovere in Italia quello che va invece smosso e cambiato a Bruxelles e a Berlino. In fondo, le stilettate di Berlusconi non sono a Letta ma, attraverso di lui, alla cancelliera tedesca ritenuta la vera responsabile della spirale recessiva che rischia, con l'Europa, di inghiottire la costruzione barocca della moneta unica.
     Più difficile e prematuro, al momento, è valutare l'impatto del voto amministrativo sugli equilibri di governo. Letta si è tenuto per forza di cose fuori dalla campagna elettorale e fuori ne sono rimasti tutti i ministri. Non è azzardato, però, ipotizzare un PdL formalmente più incisivo nelle rivendicazioni programmatiche senza mai portarsi al limite della rottura. Lo stesso schema dovrebbe valere all'indomani del 19 giugno, giorno della sentenza della Cassazione sul processo Mediaset. La conferma della condanna di Berlusconi difficilmente potrà scatenare reazioni clamorose, sempre possibili ma rese difficili dalla realtà elettorale che si è manifestata con il voto amministrativo.
     Ecco un aspetto che il Cavaliere dovrà tenere ben presente nell'impostare le sue reazioni alle prossime sentenze: la diserzione delle urne da parte di milioni di italiani è il segnale che in qualche misura la forza magnetica di Berlusconi è compromessa, e il Cav si prepara pagare il conto per tutti gli errori commessi dal partito in sede locale.
      Quanto al governo, si diceva, la navigazione di Letta procederà con le difficoltà fin qui incontrate. Il premier si muove in modo ondivago su capitoli decisivi del programma (dall'Ima alla revisione delle detrazioni e deduzioni fiscali per le imprese alle misure contro la disoccupazione giovanile). Egli non può fare altro se non predisporre le carte che ha per rafforzare l'assedio che Hollande e Rajoy portano alla politica del rigore di bilancio del governo tedesco.
     Che cosa potrà concedere la Germania che non ha concesso fino a oggi? Molto dipenderà dalle decisioni che assumerà, non prima di settembre, la Corte di Karlsruhe che ha avviato oggi l'esame dei ricorsi presentati da alcuni cittadini tedeschi contro la decisione della Bce di finanziare im modo illimitato l'acquisto di Bond emessi dai Paesi periferici. Il meccanismo OMT (Outrage monetary transaction) messo in piedi da Mario Draghi ha consentito fino a oggi di tenere sotto controllo lo spread dei titoli italiani e spagnoli. Ma è una condizione di stabilità artificiale quella di cui godono i nostri titoli pubblici. La terapia d'urto delle riforme di sistema, come le liberalizzazioni dei servizi locali, la riforma degli ordini e la riforma del mercato del lavoro sono di là da venire. Su questi punti il governo Letta si è impantanato e ai partners europei si presenterà a mani vuote con ciò creando problemi a quella parte del mondo politico tedesco che pure non osteggia la politica monetaria della BCE.
    Come si vede, alla fine di un lungo periplo il ragionamento torna sempre sulle insufficienze del ceto politico italiano. Non facendo i compiti a casa, siamo i primi e più feroci avversari di noi stessi. 

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