lunedì 22 luglio 2019

I TORMENTI DEL PD, IL DILEMMA DI SALVINI E L'ARBITRO MATTARELLA


di Massimo Colaiacomo


     Può essere una riflessione ad alta voce, senza per questo anticipare un disegno politico, ma le parole al Corriere della Sera di Dario Franceschini, ministro nel governo di Matteo Renzi e oggi ben distante dall'ex leader, hanno cosparso quest'afosa mattinata di luglio di ipotesi politiche a una prima occhiata strampalate, salvo, a guardarle più da vicino, scoprire che sono assai meno bizzarre. Il succo del ragionamento dell'ex ministro è semplice: nessun governo Pd-M5s, però non è da trascurare la ricostituzione di un arco costituzionale, come era nella prima Repubblica, per stendere un cordone sanitario, allora attorno al Movimento sociale, oggi attorno a Matteo Salvini e alla Lega.
     Viene facile da commentare: se non è zuppa è pan bagnato. Franceschini muove da una considerazione che è sotto gli occhi di tutti, vale a dire lo sfarinamento inarrestabile della maggioranza al punto che il governo è un sopravvissuto rispetto a un'alleanza finita già da qualche mese. La crisi politica non è stata fino a oggi formalizzata perché i suoi protagonisti non hanno ancora scritto un canovaccio sulla possibile uscita, e non potranno scriverlo fintanto che non avranno almeno intuito un punto di caduta. Per Salvini e Meloni, ma anche per Zingaretti e Berlusconi, la via d'uscita, almeno sulla carta, è semplice e lineare: si torna alle urne. Di fronte a uno schieramento così compatto per la fine della legislatura, che cosa è che frena Salvini dal provocarla?
     Come spesso succede in politica, le variabili finiscono per prevalere sul disegno dei leader e, di conseguenza, possono cambiare a tal punto il traguardo da tramutare un'agognata vittoria in una cocente sconfitta. Salvini e Meloni sono i due protagonisti che tutti i sondaggi danno con il vento in poppa, dunque sono loro più degli altri a poter trarre vantaggio dal voto anticipato. Però, Salvini ha assaporato il gusto amaro della vittoria alle europee, una vittoria dannunziamente "mutilata" perché se è vero che gli ha portato una dote elettorale cospicua, ha scoperto poi a sue spese che quei voti sono stati congelati nel capiente freezer dell'Unione europea. Inservibili a lui, inservibili a Ursula Von der Leyen, eletta invece con i voti decisivi dei grillini. Sconfitti sul piano elettorale, ma vincitori sul piano politico. Grazie alla regia di Giuseppe Conte e, forse, da remoto, di David Casaleggio.
     Perché sulle ambizioni e i progetti dei protagonisti, oggi dei litigi quotidiani domani, forse, di una crisi politica formalizzata, incombe il silenzio dell'arbitro istituzionale. Sergio Mattarella, si sa, non ama uscire dai solchi ben delimitati della Costituzione né ha mai tentato, almeno fino a oggi, di farsene un interprete creativo. Il suo scrupolo istituzionale ne ha fatto un custode fermo e determinato, limitandosi ogni volta a registrare la volontà politica dei singoli leader e a comporre il conseguente quadro di sintesi. Così è nato il governo giallo-verde, risultato di un "contratto" fra il partito vincitore, il M5s, e il terzo partito per numero di consensi. Un'alleanza, come Mattarella non si stancherà di ripetere ai suoi interlocutori, nata in Parlamento e grazie alla trattativa fra due partiti. L'unica in grado di esprimere una maggioranza in Parlamento, poiché il centrodestra, primo nei consensi elettorali, non disponeva della maggioranza alla Camera e al Senato. Né Salvini né Di Maio si erano presentati uniti agli elettori. Questo aspetto ha pesato e peserà naturalmente nelle valutazioni che farà il Quirinale il giorno in cui Salvini dovesse decidersi a far calare il sipario.
     Zingaretti ha ragione di dire che il PD è indisponibile a entrare in una nuova maggioranza, senza prima passare dalle urne. Non essendo chiaro il punto di caduta di un'eventuale crisi, come sbilanciarsi offrendo una disponibilità politica che potrebbe ritorcersi contro il PD in caso di voto anticipato? In questo caso, Zingaretti deve fronteggiare la fronda dei renziani, irriducibili nel rifiuto a qualsiasi intesa con il M5s. Un'opposizione tautologica, dal momento che lo stesso Zingaretti chiede le urne in caso di scioglimento. Evidentemente, sotto la chiarezza di ciò che brilla in superficie si muovono disegni più articolati, ancora inespressi. Di fronte ai tormenti del PD e al dilemma di Salvini se convenga una corsa elettorale, con tutte le incognite del Russigate, o un aggiornamento del "contratto" di governo, l'arbitro istituzionale non può che osservare. E registrare, quando si manifestano con chiarezza, le volontà dei singoli protagonisti. Come ha fatto, qualche giorno fa, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti recandosi al Quirinale per esprimere la sua indisponibilità a fare il Commissario europeo. Una scelta, a dire il vero, un po' singolare poiché Giorgetti avrebbe dovuto manifestare la sua volontà al presidente del Consiglio, unico titolare del potere di indicazione presso la UE. Ma Giorgetti ha preferito rivolgersi a Mattarella, considerato evidentemente un arbitro più vigile e distaccato rispetto alle sorti del governo.




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