lunedì 15 luglio 2019

DIETRO IL "CASO SAVOINI" C'È UNA POLITICA ESTERA SENZA DIREZIONE


di Massimo Colaiacomo

     Le indagini avviate dalla procura di Milano faranno il loro corso, fra colpi di scena più o meno risolutivi, e tutta l'attenzione mediatica sarà focalizzata sulla dimensione giudiziaria del "caso Savoini". Più indietro, e ancora parzialmente in ombra, rimane una questione forse più grave anche se di minore impatto sul piano della cronaca. Si sta parlando della politica estera del governo giallo-verde, dell'improvvisazione e delle acrobazie con cui si muove sulla scena europea e internazionale privo come è di una direzione. Prima l'accordo con la Cina, voluto e perseguito con abnegazione dal vice premier grillino Luigi Di Maio, poi la visita di Salvini a Washington e il semaforo verde dato ai principali dossier cari alla Casa Bianca (Tap in cima a tutti). Quindi l'incontro con Vladimir Putin, a Roma, lo scorso 4 luglio (en passant, è l'Independence Day, festa nazionale americana) con la rinnovata promessa di Salvini al leader russo di impegnarsi per rimuovere le sanzioni occidentali a Mosca. Frammezzo a questi "giri di valzer", l'unica direzione presa con una qualche determinazione è l'allentamento dell'ancoraggio dell'Italia all'Unione europea.
     Ai tempi della Triplice Alleanza (siamo nel 1880-1882) i governi italiani, nella fattispecie il governo Rudinì, strinsero accordi con Germania e l'Impero austro-ungarico in chiave difensiva rispetto alla Triplice Intesa (Russia, Francia, Inghilterra). Mentre l'Italia siglava la Triplice Alleanza, lo stesso governo firmava un protocollo segreto con il governo francese per la spartizione della Tunisia. Fu da comportamenti come questo che il cancelliere von Bulow potè definire la politica estera italiana come la politica di un Paese che amava fare "giri di valzer" con chiunque potesse tornare utile. Quell'Italia aveva ancora qualche giustificazione per tanta incoerenza: il Risorgimento si era concluso ma le terre irredente erano rimaste tali e dunque i governi italiani si ritenevano autorizzati a sposare i comportamenti più obliqui per raggiungere lo scopo.
     Più difficile, onestamente, trovare una qualche spiegazione alla politica estera del governo Conte. È vero che la politica estera italiana è stata spesso il terreno di scontro della politica interna (il caso più clamoroso fu Sigonella, con Spadolini e Craxi schierati su posizioni contrapposte pur essendo nello stesso governo), ma mai era successo che si mettesse in discussione l'appartenenza del Paese al sistema di alleanze internazionali che si identifica in qualche modo con la stessa nascita della Repubblica. Il lento e graduale disancoraggio dall'Europa (anche se è più retorico che concreto) sta spingendo l'Italia verso il largo ed espone il Paese alla mutevolezza dei rapporti fra le grandi potenze (Russia, Stati Uniti e Cina) senza peraltro avere gli strumenti diplomatici e la forza politica ed economica per reggere l'urto di interessi troppo sovrastanti.
     Se il "caso Savoini" può essere ragionevolmente riassorbito nella sua dimensione giudiziaria, sarà opportuno non sottovalutarne il suo significato sul piano della politica estera. Come ha scritto autorevolmente Stefano Folli (la Repubblica, lunedì 15 luglio) Salvini dovrà mostrare un sussulto di realismo e votare per l'elezione di Ursula von der Layen alla presidenza della Commissione europea, senza curarsi troppo se i voti della Lega saranno aggiuntivi e non decisivi. È la sola carta di cui dispone il leader leghista per sottrarsi ai marosi delle tempeste internazionali. È evidente che un voto del genere costringe Salvini a una doppia capriola, perché si ritroverebbe a votare una candidata scelta da Macron e Merkel, cioè dai suoi nemici giurati. Questo è il prezzo necessario da pagare per essersi esposto in politica estera senza avere uno straccio di strategia, un canovaccio da seguire con il risultato di aver minato gravemente la credibilità residua dell'Italia.
     

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