mercoledì 18 maggio 2016

CON IL REFERENDUM DI RENZI IL FUTURO DELL'ITALIA È UN ENIGMA AVVOLTO NEL MISTERO



di Massimo Colaiacomo

     Matteo Renzi dispone di una carta formidabile nella sua campagna per il referendum: è la forza della semplificazione. Sotto questo aspetto, i suoi oppositori partono in netto svantaggio, perché il NO, diversamente dal SÌ, richiede un supplemento di spiegazioni che finiscono, inevitabilmente, per appesantire la comunicazione riducendone perciò l'efficacia. Il presidente del Consiglio deve vendere una riforma complessa (e confusa, secondo le opposizioni ma anche a giudizio di non pochi sostenitori) facendo leva sull'incarto accattivante: niente più Senato e taglio dei costi della politica. Renzi cavalca, a distanza di tanti anni, uno dei leit motiv sui quali l'antipolitica ha fondato le sue fortune, politiche ed editoriali. Non a caso, per coerenza con la loro battaglia giornalistica, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sono nella schiera dei convinti sostenitori del SÌ alla riforma della Costituzione. La battaglia referendaria si risolverà tutta "in superficie" e Renzi potrà agevolmente vellicare gli spiriti dell'antipolitica e mettersi alla testa, lui, politico di professione, di una crociata impostata molto tempo fa. Il tutto in nome della modernizzazione istituzionale, di un Paese "in linea" con l'Europa e "le democrazie più avanzate", cioè gli stessi slogan da tre soldi, ma di efficacia micidiale, utilizzati per le unioni civili.
     In simili condizioni è difficile per chiunque opporsi al bombardamento mediatico del presidente del Consiglio. Come dire NO alla riforma votata dal Parlamento senza per questo essere accusati di conservatorismo istituzionale, di essere inguaribili poltronisti, di rifiutare il cambiamento per paura del nuovo? E come convincere gli elettori che un NO a questa riforma non sarà preclusivo di una riforma diversa, insieme più incisiva ed equilibrata, e non segnerà la fine di ogni processo riformatore come afferma quel sostenitore non occasionale quale è Giorgio Napolitano? Esiste inoltre un dato che rende ancora più complicata la battaglia del NO: si tratta di un fronte talmente eterogeneo, diviso sul piano politico e privo di una proposta alternativa forte e visibile, da mettere in votazione una volta fallito il referendum, da risultare poco credibile anche per il più scettico  sostenitore della riforma.
     È questa la forza maggiore che proviene a Renzi dalla disordinata compagine dei suoi oppositori. Vedere insieme coriacei parlamentaristi e presidenzialisti incalliti quanto confusi, nostalgici della partitocrazia e riformisti à la carte in servizio permanente effettivo, almeno finché le riforme non si fanno, è uno spettacolo che vale da solo la campagna elettorale per il SÌ. Tuttavia, a dispetto di un evidente squilibrio mediatico e di comunicazione a lui favorevole, la strada per la vittoria è ancora lunga e Renzi non può rischiare di anticipare troppo i toni ultimativi e tranciante ascoltati ancora in queste ore. La semplificazione oltre misura dei contenuti della riforma - meno senatori, meno soldi ai consiglieri regionali e meno poteri alle Regioni - rischia di ritorcersi come un boomerang nel momento in cui gli oppositori al referendum dovessero trovare una ragione valida ed efficace. Quando Berlusconi evoca, come ha fatto qualche giorno fa, un governo tecnico come via d'uscita alla sconfitta di Renzi al referendum e alle sue conseguenti dimissioni, ha evocato uno scenario plausibile sul piano tecnico ma politicamente inconsistente. Un governo tecnico dopo l'ennesimo fallimento delle riforme può solo accompagnare il Paese a nuove elezioni, con una legge elettorale nel frattempo divenuta legge dello Stato. Ma con quali schieramenti e, soprattutto, con quali forze in campo rimane un mistero. Quel governo tecnico (se non addirittura istituzionale) rischia di essere guidato dal Pierre Mèndes-France di turno, cioè dal primo ministro francese il cui fallimento nel 1958 aprì la strada alla Quinta Repubblica. È una speranza debole, ma è la sola alla quale possono aggrapparsi i democratici senza aggettivi sfuggiti alle sirene del renzismo ma distanti anni luce dai parrucconi della conservazione. È auspicabile per la nuova Italia un assetto politico presidenzialista, con il popolo che elegge la guida della Repubblica e dell'esecutivo e sceglie poi i suoi rappresentanti in Parlamento eleggendoli in collegi maggioritari uninominali. La grande costituzione monarchica americana intravvista da Tocqueville, e contrapposta alla monarchia costituzionale europea nata nella Francia luigifilipparda, rimane ancora oggi un riferimento luminoso. Come da tanti lustri non si stanca di ripetere Marco Pannella. 

     


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