sabato 16 gennaio 2016

RENZI RISCHIA LA SOLITUDINE IN EUROPA PER NON PERDERE IN ITALIA


di Massimo Colaiacomo


     Né antieuropeista, sulla scia di Le Pen e Salvini, ma neanche più europeista secondo la vecchia liturgia democristiana. A distanza di qualche mese dall'inizio del braccio di ferro con il presidente della Commissione Juncker e la cancelliera Merkel, si può ragionevolmente incasellare il premier Matteo Renzi fra gli europeisti "vocianti", cioè quella schiera esigua di Paesi che contestano l'Europa come è ma non hanno mai spiegato come dovrebbe essere.
     Il futuro, come ammoniva il venditore di almanacchi del Leopardi, sarà sicuramente ricco di tutte le promesse fallite dal presente. Renzi ha alzato la bandiera dell'orgoglio nazionale, sorretta dalla spavalderia personale, e ricorda ogni tre per due che l'Italia non si lascia intimidire, che i nostri conti sono in ordine e le regole del Patto di stabilità sono state rispettate. Dopo mesi di silenzio irritato, Juncker gli ha replicato con parole fuori dal protocollo, spigolose, e si è ripromesso, quando sarà a Roma, a fine febbraio, di indagare sull'origine dell'atteggiamento bellicoso assunto verso gli organi europei da uno dei Paesi fondatori.
     Juncker, per la verità, ha fatto qualcosa di più: ha ricordato a Renzi che i conti sono in ordine grazie alla flessibilità concessa, e a quella ulteriore che Renzi conta di prendersi in primavera. Il contenzioso con l'Europa è pesante e investe ormai quasi tutti i dossier: dal salvataggio dell'ILVA alle nuove regole del bail in per le banche (salvataggio con mezzi propri, a carico degli azionisti e non più dello Stato); dall'immigrazione, con la ricollocazione dei migranti mai realizzata, alla mancata realizzazione del piano di crescita firmato dallo stesso Juncker. Non c'è una sola materia su cui l'Italia non abbia rivendicazioni o proteste da sollevare contro gli organismi europei.
     È una scelta meditata del premier italiano, dettata da ragioni di politica interna, oppure è la casualità degli eventi che ha messo Italia ed Europa su trincee opposte? Due spiegazioni non necessariamente in contrasto, considerata l'abilità del premier italiano a cavalcare ogni circostanza, foss'anche la più sfavorevole, per trarne un profitto politico. Renzi è determinato a sterilizzare l'antieuropeismo dei suoi avversari (Grillo e Salvini), a maggior ragione in vista del voto amministrativo. Ma sa che su questo terreno non può spingersi oltre un certo limite superato il quale rischia di portare il suo governo in una posizione storicamente irrituale per l'Italia paese europeista da sempre, sia pure con qualche eccesso retorico.
     L'idea di cavalcare la contestazione a Bruxelles per consolidare e allargare i consensi politici in  patria non è un inedito. Prima di Renzi ci ha provato Tsipras, in Grecia, per vincere le elezioni. Ci ha provato Marine Le Pen, in Francia, ma ha perso. Perché anche l'antieuropeismo ha un confine sottile al proprio interno: un conto è praticarlo per conquistare il governo di una nazione, altro conto è praticarlo per conquistare il monopolio dell'opposizione. La seconda categoria è affollata di leader, mentre nella prima schiera se ne contano davvero pochi, a parte Renzi, Cameron e Orban. Tre leader molto diversi fra loro, ma uniti dalla comune necessità di fronteggiare le forze antieuropee presenti nei rispettivi Paesi.
     Quanto poi al calcolo, attribuito a Renzi da alcuni osservatori politici, di voler cogliere Merkel e Juncker in un momento di oggettiva debolezza del loro mandato, si tratta di ipotesi prive di riscontri oggettivi. La questione delle regole da cambiare rispettandole non è stata inventata dall'Italia e ostacolata dalla Germania. Se anche il commissario francese, il socialista Pierre Moscovici, ammonisce l'Italia a non esagerare in flessibilità nella tenuta della finanza pubblica vuol dire che i dirigenti europei avvertono, da diverse posizioni politiche, i rischi enormi che incombono sulla costruzione comunitaria dalla troppo ricorrente contestazione delle regole e dei Trattati. C'è un'ortodossia europea rispetto alla quale è impensabile concedere deroghe perenni senza contropartite in cambio. La flessibilità ha un senso e viene riconosciuta se impiegata a dare vigore alla crescita e all'occupazione. Diverso il caso di una flessibilità nei conti sfruttata al solo scopo di abbassare le tasse e rilanciare i consumi perché si tratta di obiettivi, sicuramente necessari, che possono essere raggiunti soltanto creando lavoro. Il che, al momento, non sembra essere il caso dell'Italia.
     Sembra più verosimile, a questo punto, che la scelta di Renzi di fare la voce grossa con l'Europa sia legata proprio a un obiettivo più prosaico e importante: incassare il via libera sulla manovra finanziaria e quindi sulla flessibilità supplementare in esso contenuta. Perché se non taglia questo traguardo, a primavera, e in piena campagna elettorale, si affaccia la prospettiva di una manovra correttiva. Un viatico indigesto per chi si prepara ad amministrare una "non vittoria" al voto di primavera.

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