giovedì 19 gennaio 2017

I CONTI DI BRUXELLES NON COINCIDONO CON QUELLI DI PALAZZO CHIGI E DEL PD


di Massimo Colaiacomo


     Non è una doccia fredda la lettera di richiamo arrivata da Bruxelles al governo italiano con la richiesta di un aggiustamento fiscale pari a 0,2 punti del deficit. Si tratta di circa 3,4 miliardi di euro da trovare entro la fine di febbraio, diversamente la Commissione europea aprirà la procedura d'infrazione prevista in questi casi. La reazione del governo, sostenuto dal presidente della Repubblica, è stata risentita quanto basta: Gentiloni ha trovato inaccettabile il doppio standard della Commissione, severa con i conti italiani e più tollerante con il surplus commerciale della Germania. Meno tranchant il presidente della Repubblica. L'Europa non può limitarsi al controllo occhiuto dei conti pubblici, è il succo delle parole di Mattarella, e lasciare l'Italia sola a fronteggiare il problema dell'immigrazione. Il dramma del nuovo sciame sismico, reso più intenso dalle estreme condizioni meteo, ha messo in qualche modo la sordina alle polemiche incrociate fra Roma e Bruxelles destinate, però, a non spegnersi molto presto.
     Quello che tanti analisti temevano, e cioè il conto che inevitabilmente l'Europa avrebbe presentato una volta superato il voto referendario, è la nuova realtà nella quale dovrà muoversi il nuovo governo. È l'eredità, e neanche la più ingombrante, lasciata da Renzi a Paolo Gentiloni anche se il testimone, sul piano negoziale, è rimasto nelle mani del ministro Padoan. I richiami di Bruxelles possono essere derubricati a un fatto tecnico (la differenza di 3,4 miliardi può essere colmata, difficile solo farlo ricorrendo a mini-imposte comunque mascherate) sul piano europeo, ma sul piano politico domestico essi hanno una rilevanza da non sottovalutare. Il governo Gentiloni, bollato dalle opposizioni come un esecutivo "fotocopia", si trova di fronte a un bivio: o ingaggiare un braccio di ferro con Bruxelles, l'ennesimo di una stagione troppo lunga, oppure accusa ricevuta e mette mano alla Legge di stabilità del suo predecessore. Non è difficile intuire come questa seconda ipotesi si carichi di un valore politico notevole. Perché dopo il Jobs act, su cui il governo si prepara a fare le correzioni richieste dalla Consulta, ritoccare anche la Legge di Stabilità significa accettare correzioni di rotta non irrilevanti alla stagione del renzismo.
     Eco di questo si trova nell'intervista di Massimo D'Alema al Corriere della Sera. I giudizi dell'ex premier sugli anni di Renzi sono corrosivi come è nello stile dell'uomo (Renzi "adeguato" per fare il segretario e il candidato premier), ma ancora più taglienti sono sulle prospettive politiche. D'Alema sottolinea il garbo istituzionale di Gentiloni e il tratto umano che lo dispone a un dialogo più agile. Ma è sulla legge elettorale che il tatticismo di D'Alema si esalta. A sorpresa si dice convinto, d'accordo con Renzi, che il Mattarellum sia un sistema preferibile rispetto al proporzionale su cui Berlusconi sembra irremovibile. I calcoli di D'Alema sono fin troppo scoperti: la melina del leader di Forza Italia per andare al voto il più tardi possibile e il suo tentativo di riaprire un tavolo con Renzi sulla legge elettorale, sono la ciambella di salvataggio a cui Renzi è pronto ad aggrapparsi per non perdere la centralità residua che gli consente l'attuale situazione.
     D'Alema intende così tagliare la strada a ogni possibile accordo fra Renzi e Berlusconi e rilancia il Mattarellum perché, con il mix di maggioritario e proporzionale e in assenza di ballottaggio, esso costringerebbe il PD a costruire alleanze alla sua sinistra e dunque a chiudere definitivamente il sipario sul partito della Nazione, travolto dalla tempesta referendaria. Avendo serenamente dichiarato il suo obiettivo di sbarrare la strada a un ritorno di Renzi a palazzo Chigi, D'Alema liquida con poche parole il ruolo di Berlusconi, interessato a non ostacolare il governo Gentiloni al solo scopo di meglio tutelare le proprie aziende sotto attacco di Vivendi.
     Ma sui ragionamenti dalemiani, come sui propositi di Berlusconi e sul nuovo passo di Renzi, più prudente o meno affrettato di prima, incombe, come accade ormai da anni, la spada di Damocle della Commissione europea sul deficit eccessivo. Il pallino è nella mani di Padoan, ma anche in quelle politicamente abili di Gentiloni. I governi italiani che vanno a Bruxelles a battere il "pugno sul tavolo" sono un'immagine logora e stucchevole, il cui scarso successo dovrebbe indurre questo esecutivo a cambiare approccio. Moscovici ha mostrato una pignoleria insolita, da attribuire, secondo un'interpretazione maliziosa, al suo desiderio di candidarsi alla vice presidenza della Commissione. Ma il controllo occhiuto del deficit è figlio di un debito pubblico che corre a briglie sciolte da alcuni anni, tranne rare pause (l'ultima è stata del governo Prodi, nel 2006-2008). Far quadrare i conti, o comunque trovare un difficile compromesso con Bruxelles, avrà un impatto politico sul giudizio dei tre anni di Renzi. Per uno di quei strani paradossi della politica, il governo che si vuole "fotocopia" dovrà poco alla volta aggiustare il meccanismo del renzismo fino, forse, a renderlo irriconoscibile. E il tutto, avendo alle spalle la stessa maggioranza del precedente governo. In un quadro dominato da incertezze non facilmente risolvibili, Renzi ha scelto di frenare la corsa verso il voto. La prima, meditata decisione della sua arrembante stagione.  

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