domenica 26 giugno 2016

DA LONDRA UNA LEZIONE SULLA FRAGILITÀ DELLA DEMOCRAZIA (E SUI RISCHI DI RENZI)

     Il referendum è sempre l'espressione diretta e "neutrale" della volontà popolare? Oppure sta  diventando lo strumento grazie al quale la politica può distorcere quella volontà e piegarla ai suoi disegni? La democrazia parlamentare rappresentativa è al tramonto, secondo lo schema Casaleggio-Grillo, ma può salvare se stessa, e la libertà delle persone, se ingaggia una guerra spietata al populismo referendario


di Massimo Colaiacomo


     "Il popolo si è espresso", "il popolo ha manifestato la sua volontà" sono soltanto alcune delle espressioni, autentiche catchphrases, affiorate sulla bocca di importanti autorità, non solo temporali. Il popolo in questione, quello inglese, si è pronunciato nel referendum che sancisce, dopo oltre 40 anni di turbolenta convivenza, la separazione definitiva dall'Europa. Il popolo ha votato dopo lunghi mesi di una martellante campagna in cui le ragioni del "lasciare" sono risuonate con una forza, una semplicità ed una efficacia completamente mancanti al campo dei sostenitori del "remain". Perché il popolo inglese, ricco d'orgoglio ma ancora più di nostalgia per ciò che è stato l'Impero, come altro poteva votare se posto di fronte alla prospettiva di liberarsi dal "gioco" di Bruxelles, dalla "tirannia" di una burocrazia asfissiante, da una Unione "matrigna" tutta tasse e imposte, da un'Europa senza più confini sicuri per i suoi abitanti? Poteva votare nel solo modo in cui ha votato: usciamo dall'Europa. I candidati alla vittoria, Nigel Farage, leader dell'Ukip, e l'ex sindaco di Londra, Boris Johnson, non hanno sciolto le campane per un traguardo al quale loro per primi non credevano. Hanno chiamato il popolo, e il popolo ha risposto consegnando a loro un risultato elettorale la cui gestione li coglie semplicemente impreparati.
     È realistico il ritratto di Johnson apparso stamane sul Guardian come di un leader in piena confusione. Ma è la politica inglese tutta finita in un bollitore. I conservatori sono pronti ad accapigliarsi per impedire che sia Johnson il successore di Cameron e lavorano per Theresa May, l'anonimo ministro dell'Interno. Come se le questioni sollevate dal referendum fossero già state sciolte e risolte con il voto del 23 giugno.  Quel referendum, come tutti i referendum che toccano la sfera dell'attività pubblica, ha sollevato una questione squisitamente politica per la quale, in ogni democrazia rappresentativa, è il Parlamento ad assumere le decisioni. De Gasperi, Schuman, Adenauer, Jean Monnet non furono minimamente sfiorati dall'idea di un referendum per consultare i rispettivi popoli sull'opportunità di dar vita al mercato comune europeo e, in prospettiva, agli Stati uniti d'Europa. Probabilmente non sarebbe mai nata l'Europa quale abbiamo conosciuto in questi decenni, ma sicuramente la fine della Seconda guerra mondiale avrebbe lasciato una scia di veleni capaci, in questi decenni, di provocare nuove e più sanguinose guerre in Europa.
     Il referendum inglese ha preso forma come strumento di lotta intestina al Partito conservatore ma ha portato tutto il Paese nel baratro del "leave". Promettendo il referendum, Cameron ha stravinto le elezioni politiche nel maggio 2015; facendolo celebrare, si è scavato la fossa politica. Il popolo inglese, nella sua maggioranza, ha votato contro un'oppressore europeo ma nessuno dei sostenitori del "remain" ha saputo spiegare quanto i vantaggi dell'appartenenza allìUnione fossero incommensurabilmente superiori agli svantaggi. Ora, scoprire che la libertà dalla "schiavitù" dell'Europa comporterà la perdita stimata di circa 2 milioni di posti di lavoro e una recessione destinata a prolungarsi fino al 2020 è , oggettivamente, una presa di coscienza ex post delle terribili conseguenze del referendum. La patetica corsa a firmare una petizione per ripetere il voto è soltanto la conferma della sprovvedutezza con cui è stato organizzato il referendum, dell'avventurismo politico dei Farage e dei Johnson che lo hanno cavalcato, e, in definitiva, della fragilità dolorosamente rivelata della democrazia parlamentare più antica del mondo.
     Cameron ha commesso l'errore clamoroso di inseguire il populismo e lo sciovinismo dell'Ukip pensando di sconfiggerlo con le sue stesse armi. L'errore commesso anche da Renzi in Italia, organizzando un referendum da nessuno richiesto ma a lui caro come forma di plebiscito personale, dunque trasformandolo in uno strumento populistico di consenso. Da Londra a Roma, il referendum è usato dai leader politici per tagliare le gambe al Parlamento, cioè al loro organo di controllo prima ancora che depositario del potere legislativo. Come uscire da questo circolo vizioso e disgregativo dell'Europa e della democrazia rappresentativa?
     La scorciatoia alla quale si pensa è vietare i referendum sui Trattati europei. Si tratta, con tutta evidenza, della strada migliore per guadagnare l'inferno e distruggere definitivamente l'Europa. L'altra strada, più difficile, è quella che impone alla politica di assumersi responsabilità nuove, e ai leader di sfoggiare il coraggio necessario nei grandi passaggi della storia, rilanciando concretamente il progetto di un'Europa federale. Subito pattugliamenti in mare con forze di polizia su imbarcazioni con il logo della UE, con agenti e ufficiali in divisa della UE e con ingaggi chiari e precisi sulla politica di contenimento dell'immigrazione. Subito, una deroga generalizzata ai parametri sulle politiche di bilancio ma al solo scopo di fare investimenti. Ad esempio, riconoscendo a ogni Paese la facoltà di portarsi 1 o 2 punti sopra il rapporto deficit-Pil se accetta il monitoraggio della Commissione. Quindi invertendo il percorso fin qui seguito, secondo cui se arrivano gli aiuti del Fondo salva-Stati scatta la "protezione" della trojka. No, fare il contrario: la trojka arriva non per vigilare se hai rispettato i parametri, ma per controllare che 15 o 20 miliardi in più di spesa siano effettivamente destinati a investimenti pubblici e non a elargire mance elettorali.
     Un'Europa che perdesse la sua maschera di madre-matrigna per indossare quella di madre premurosa del benessere e dello sviluppo, farebbe il miracolo di mutare il sentimento dell'opinione pubblica nell'arco di pochi anni. A fronte di questa virata sulle politiche di bilancio, ci dovrebbe essere però una nuova, rilevante cessione di sovranità nelle politiche di sicurezza e di difesa, e dunque un'accelerazione importante sulla via dell'integrazione politica.


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