mercoledì 8 maggio 2013

SPENTA LA MICCIA SULLE RIFORME VERA SFIDA PER GOVERNO E' LA SITUAZIONE ECONOMICA

di Massimo Colaiacomo

     Con uno dei suoi repentini cambi d'abito, Silvio Berlusconi ha indossato i panni dello statista e ha spento l'incendio che le forze politiche avevano appiccato attorno alla Convenzione per le riforme e alla sua presidenza. Berlusconi, intervistato da Maurizio Belpietro, ha negato ogni ambizione personale archiviando nella categoria dello scherzo la sua battuta sulla presidenza della Convenzione. E ha indicato nel Parlamento e nell'art. 138 della Costituzione la sede e lo strumento più adeguati per qualsiasi discorso sulle Riforme. Che cosa significa questo revirement si capirà presto. E' possibile però misurare gli effetti immediati delle affermazioni fatte dal Cavaliere stamane.
     Con la bocciatura delle Convenzione, Berlusconi ha puntato a due obiettivi: da un lato disinnescare un motivo di conflitto nella maggioranza con le inevitabili ripercussioni su un esecutivo fragile sul piano politico, almeno finché non avrà individuato una rotta di navigazione. Dall'altro lato, rimettendo la palla delle riforme in Parlamento Berlusconi accentua in qualche modo la natura tutta politica e non tecnica, come sarebbe stato con la Convenzione, del processo riformatore da avviare. È evidente che in questo modo Berlusconi lancia una sfida al Pd chiamandolo a uscire dallo smarrimento e dallo stato di confusione in cui versa per assumersi chiare e vincolanti responsabilità di fronte al Paese.
     La strategia di Berlusconi non contiene, al momento, l'opzione del ritorno immediato alle urne. Neppure, è evidente, lo esclude, ma punta a rendere comprensibile e visibile agli occhi del Paese sul conto di chi andranno caricate le responsabilità di un eventuale fallimento delle riforme. Sotto questo aspetto, si può dire che Berlusconi punti a snidare insieme Pd e M5s scontando che in quelle due forze si annidano le maggiori resistenze a ogni revisione profonda e incisiva della Costituzione. In questo senso, la Convenzione, con la sua natura ibrida di organismo non si sa se più politico o tecnico, agevolerebbe i disegni di chi punta ad annacquare o bloccare del tutto le riforme lasciando sospese nell'aria le responsabilità politiche.
     Il Cavaliere non si è addentrato invece sul terreno delle politiche di governo. E non ha rinnovato la sua litania sull'IMU da abolire sulla prima casa. Questo non significa naturalmente che sia cambiata la sua strategia. Può significare piuttosto che il PdL intende vedere tutte le carte che il premier Enrico Letta vorrà e saprà mettere sul tavolo in materia fiscale. Il punto cardine della politica fiscale dell'esecutivo è fin troppo chiaro: qualunque intervento di alleggerimento della pressione ha come presupposto l'invarianza del gettito fiscale. Lo chiede Bruxelles, lo impone la situazione economica e, si può aggiungere, è il vincolo che tiene unite le forze della maggioranza. Per la ragione che nessun partito ha mai posto sul tappeto il problema di tagli drastici alla spesa pubblica. Si ripete in modo stantio la giaculatoria delle "spese inutili" da sforbiciare e qualcosa era già stato fatto da Enrico Bondi, il tecnico nominato da Mario Monti.
     Ma nessuna forza politica ha finora sfornato un'idea convincente su come intervenire sulla montagna di spesa sociale alta 880 miliardi di euro per il 2012. Intervenire, come ha fatto Bondi, realizzando tagli per complessivi 4,8 miliardi, cioè poco più dello 0,5 %, significa soltanto rinviare l'appetito di quell'enorme pachiderma.
     La debolezza dell'esecutivo Letta potrebbe manifestarsi proprio su questo più che su altri versanti. Il controllo della spesa pubblica è stato realizzato, dalla metà degli anni '50 in avanti, agendo solo ed esclusivamente dal lato fiscale senza mai riuscire ad arginarne le fonti. Su questo punto, Pd e PdL non hanno idee troppo dissimili dal governo tecnico di Mario Monti. Tutti invocano un alleggerimento della pressione fiscale sul lavoro o sulla casa, sui redditi bassi o su altre categorie malmesse dalla crisi, mai una volta però che si indichi per recuperare le risorse che mancano allo Stato una via diversa dagli aggravi delle tasse attraverso una partita di giro fra le diverse classi di contribuenti. Meno tasse sul lavoro, ha detto Letta, e più sulle rendite finanziarie. Bene, cioè male: tassare di più i redditi dell'investimento azionario con le aziende che boccheggiano non è un freno per chiunque voglia investire? Come è pensabile una strategia simile in un Paese che ha pressoché cancellato il credito alle imprese e ha una fame bulimica di capitali freschi?

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