mercoledì 1 maggio 2013

CAMBIARE L'EUROPA PER CAMBIARE L'ITALIA? VASTO PROGRAMMA ... IMU SI', IMU NO: NESSUN LEADER PARLA DI TAGLI ALLA SPESA PUBBLICA



di Massimo Colaiacomo

     Non ha torto il presidente del Consiglio Enrico Letta quando ricorda al cancelliere tedesco che nessuno ha la formula magica per salvarsi da solo: o l'Europa si salva tutta intera o esploderà in 17 singoli fallimenti. E' una verità ben nota, anche nei pressi di Berlino. Meno note sono le vie che intende seguire l'esecutivo italiano da poco insediato per evitare il fallimento del Bel Paese. La politica economica del governo rimane ancora avvolta nella nebbia nelle sue linee essenziali. Tranne su un punto: la prosecuzione della linea di rigore nei conti pubblici. Come i suoi predecessori, anche Letta ha ribadito la fedeltà del suo esecutivo agli impegni solennemente presi dall'Italia n materia di contenimento del deficit con il tendenziale azzeramento entro il 2013.
     Tutti si chiedono, allora, dove e come Letta troverà gli spazi di manovra per realizzare quell'agenda sociale ricca di impegni annunciata nel discorso alla Camera. Il "dove" si va chiarendo: l'Italia tenterà di seguire le orme della Spagna e ottenere, come ha ottenuto il premier Rajoy, una dilazione di un paio d'anni per l'azzeramento del deficit. E' questo l'obiettivo che si intravvede nelle dichiarazioni di alcuni ministri, come Graziano Del Rio, quando accennano all'esigenza di rendere meno stringenti i vincoli del Patto di Stabilità interno. Si tratta, in altre parole, di consentire ai Comuni cosiddetti "virtuosi" e cioè senza deficit corrente (per la maggior parte si trovano nel Centro-Nord) di riaprire i canali di spesa per finanziare investimenti in opere pubbliche. Comuni e Regioni virtuose. Domanda: la Sicilia, il cui governo regionale ha deciso la stabilizzazione di 3.500 precari mentre a due passi dallo Stretto, in Grecia, il Parlamento ha votato per il licenziamento di 15 mila dipendenti pubblici, deve considerarsi una Regione virtuosa o dissennata?
     Nella conferenza stampa seguita al faccia a faccia con il presidente Letta, il cancelliere Angela Merkel si è detta convinta come Letta della necessità di avviare politiche di crescita, precisando però che in ogni caso "non lo Stato, ma le imprese private devono creare posti di lavoro". Non è chiaro se la precisazione di Merkel sia stata una risposta, in pubblico, a qualche argomentazione usata da Enrico Letta nel precedente colloquio privato. Se così è stato, si può dire che ieri, a Berlino, si  ripetuto lo stesso tenore del colloquio che, nel gennaio 1953, vide protagonisti Alcide De Gasperi (nel ruolo di Merkel) e Amintore Fanfani (nel ruolo di Letta).
     Il ministro aretino dell'Agricoltura chiese all'allora presidente del Consiglio di aumentare la pressione fiscale così da poter finanziare politiche attive del lavoro, in pratica assumendo negli enti pubblici, centrali e periferici, una parte della grande massa di disoccupati. La risposta di De Gasperi non fu moto diversa da quella data ieri da Merkel: lo Stato può occuparsi di costruire la cornice più propizia per favorire l'attività d'impresa. Solo quest'ultima, però, può costruire posti di lavoro veri e solidi senza aggravi di spesa per lo Stato.
     E' senz'altro prematuro, e oltre modo presuntuoso, azzardare valutazioni  sulle politiche economiche di bilancio e sulla politica sociale del governo appena insediato. Né sarebbe lungimirante affidarsi alla sensazione che può trasmettere l'esito di un vertice per quanto importante come quello avuto ieri da Enrico Letta con il cancelliere Merkel. Si coglie però nell'aria come un profumo già sentito in altre stagioni. Politiche di sollievo al disagio sociale sono possibile soltanto seguendo il "metodo Crocetta": lo Stato apre le porte di enti pubblici centrali e periferici e assorbe, utilizzando una delle tante categorie contrattuali del precariato, una quota dei giovani disoccupati.
     Sarebbe il primo ma già fatale errore per un esecutivo nato con l'ambizione di riformare e cambiare l'Italia. Letta ha fatto solo un vago cenno nel suo discorso programmatico alla necessità di deburocratizzare i rapporti fra Stato, cittadini e imprese. Questo dovrebbe essere invece il primo e più urgente passo da compiere per far dimagrire quel pachiderma pubblico, fra i più onnivori e insaziabili, che è lo Stato italiano.
     Questa è solo una delle mille sfide che attendono l'esecutivo "di servizio" affidato a Letta. Di fronte all'eventuale inazione del governo su questo versante avrebbe buon gioco il fronte liberal-populista a stringersi intorno al suo leader Berlusconi e a porre l'aut-aut sulla cancellazione dell'IMU: o via l'IMU o via il governo, è il ritornello delle truppe vocianti del populismo.
     Con successo sempre rinnovato,  Berlusconi continua a coltivare la ragnatela di promesse elettorali: promesse prese tre mesi fa, ma sempre valide nel caso di ritorno alle urne in tempi ravvicinati. Alleggerire le tasse è un dovere e l'IMU, al pari di altre imposte e balzelli, sarebbe da togliere non oggi, ma ieri. 
     Domanda: come sostituire i mancati introiti dell'IMU? Lo stregone di turno ha pronta la sua magia: più soldi in tasca agli italiani significa più consumi, meno tasse sulla casa significa rilancio del settore edilizio. Tutto semplice, tutto facile. Perché non averci pensato prima?
     Si tratta, come è evidente, di una favola evergreen. Sul successo di questa terapia, come di altre, è lecito avere più di un dubbio. Più soldi in circolazione significa intanto una ripresa dell'inflazione. Siccome il governo della moneta non è a Roma ma a Francoforte, il rischio evidente è che un'impennata inflattiva in un Paese come l'Italia possa indurre la BCE ad alzare nuove difese per la salute dell'Euro. Quindi stop alla politica di relax sui tassi e immediata restrizione del credito, già asfittico quello per le imprese.
     C'è un'altra strada possibile, mai esplorata da nessun governo e, c'è da scommettere, preclusa anche all'esecutivo di Enrico Letta per via della maggioranza multanime che lo sostiene. E' la strada di tagli incisivi della spesa pubblica, ma senza più usare la metafora ipocrita dei tagli alla spesa inutile. No: i tagli incisivi e quantitativamente rilevanti devono toccare la spesa sociale, bruciare sulla pelle dei cittadini. Tagli di spesa e di personale incisivi, estesi e rapidi, nelle amministrazioni centrali e regionali, invece della riduzione progressiva e agonica della spesa che induce la morte per asfissia dell'Italia. Nessuno né hai mai fatto cenno. Si chiami Berlusconi o Letta, Bersani o Brunetta. La partita fra i liberal-populisti e i conservatori sociali ha il potere di perimetrare il campo di gioco che sempre più coincide con la "morta gora" sociale e politica.

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