venerdì 3 maggio 2013

PERCHE' LA BATTAGLIA ALL'ULTIMO SANGUE INTORNO ALLA CONVENZIONE



di Massimo Colaiacomo

     
     Le agenzie di stampa, si sa, sono lo strumento preferito dalla politica per consumare battaglie di asprezza inusitata pari almeno, per fortuna del Paese, alla povertà delle conseguenze. Attraverso questa vetrina si svolgono da alcuni giorni, con cadenza quasi oraria, le incursioni dei parlamentari del PdL che rivendicano la presidenza della Convenzione per le riforme al centrodestra e, quasi inutile dirlo, al suo leader. A leggere il tenore di certe dichiarazioni si ricava l'impressione di un imminente esplosione atomica nel caso quella presidenza dovesse finire in mani diverse.
     Davvero il quadro politico è a un passo dalla deflagrazione a causa degli equilibri nella Convenzione per le riforme? Naturalmente no. Per la ragione, semplice e antica, che nella politica, non solo italiana, si rivendica qualcosa per accampare il diritto a vedere accolte altre richieste. Insomma, il PdL senza la presidenza della Convenzione può esigere di vedere soddisfatte altre ragioni  in nome di un equilibrio politico che impone ogni volta la ricerca del compromesso. La logica luciferina è tutta qui: più fuochi si accendono intorno al governo più si rende necessario trovare di volta in volta forme di "compensazione" per la parte politica che si ritiene danneggiata o soccombente rispetto alla spartizione degli incarichi o agli accordi di programma.
     Nel caso della Convenzione, però, la battaglia infuria su un organismo privo di effettivi poteri. Non è un organo costituente, il suo ruolo sarà probabilmente depotenziato aprendola alla presenza di professori e studiosi, quindi non solo ai parlamentari. Eppure il PdL ne fa una questione di vita o di morte, almeno in misura pari se non superiore alla cancellazione dell'IMU.
     A cercare il perché di tanta ostinazione si trovano spiegazioni le più diverse, plausibili alcune e più fantasiose altre. Il fronte dell'antiberlusconismo militante scodella la più semplice e ovvia delle ragioni: Berlusconi vuole quella presidenza per vedersi riconosciuto il "legittimo impedimento" ogni qualvolta si renderà necessario, così da prolungare all'infinito i suoi processi e arrivare in carrozza alla prescrizione. Forse questa spiegazione contiene una sua verità, ma viene da chiedersi: tutto qui? E allora perché non puntare a una più tranquilla presidenza di una commissione permanente che avrebbe gli stessi analoghi benefici giudiziari? Siamo sul confine fra il plausibile e il fantasioso.
     A guardare la vicenda con gli occhi ingenui dell'analisi politica, e al netto dei retroscena che rovistano in tutti i bauli e cassonetti a portata di mano, si trova una spiegazione molto più robusta: la presidenza della Convenzione per le riforme si presenta come il contraltare politico alla presidenza del Consiglio. Il suo presidente è una sorta di "secondo pilota" del governo e dal suo monitor può quanto meno codecidere con il presidente Letta il timing della durata del governo. E tanti poteri non sono scaturiti da una qualche volontà diabolica. Essi sono stati conferiti alla Convenzione dallo stesso Enrico Letta quando, nell'intervento sulla fiducia alla Camera, ha legato la durata del suo esecutivo alla realizzazione di riforme come la legge elettorale e la revisione della Costituzione. 
     In questo modo, è evidente, Letta ha indicato nel presidente della Convenzione una specie di suo "secondo". Fare o non fare le riforme significa aprire la navigazione al governo o decretarne la fine. Farle, significa intestarsi meriti a questo punto di portata storica, visto che dall'annuncio della Grande Riforma di Bettino Craxi sono trascorsi 35 anni. La Francia, nello stesso arco di tempo, ha fatto e disfatto due Repubbliche.
     La presidenza a Berlusconi sarebbe "inopportuna", ha sentenziato Massimo D'Alema senza dare ulteriori spiegazioni. In quell'aggettivo è racchiuso un vasto oceano di allusioni nel quale D'Alema sa nuotare come pochi altri. Non meno "inopportuna", si può osservare, sarebbe l'assegnazione di quella presidenza a Stefano Rodotà, come pure propone qualcuno da sinistra. Non per la mancanza di qualità e di titoli della persona, blasonata come pochi altri politici. Ma per la ragione che è difficile far riformare la Costituzione a qualcuno che la ritiene intangibile e considera più che un sacrilegio qualunque sua modifica. Sarebbe come riesumare la salma di Breznev per riformare la Russia di Putin.
     Gli squilli di diana che provengono dal centrodestra non sono l'annuncio di una guerra all'esecutivo, ma assomigliano piuttosto alla bandiera da mostrare agli avversari politici e agli elettori. L'assalto al governo non è per ora né per giugno. Berlusconi non può commettere l'errore di staccare la spina a un esecutivo che ha aperto un "fronte" in Europa riprendendo la battaglia a suo tempo affrontata da Berlusconi in solitudine. Se Letta riuscirà a strappare alla Merkel e a Von Rompuy qualche concessione, e di non poco conto, per aprire spazi alla crescita, tutte le battaglie di carta di questi giorni finiranno in un cestino. Diversamente, il vascello dell'esecutivo sarà destinato a finire nelle secche.
     Letta ha scelto l'Europa come terreno per la sua sopravvivenza. Lì deve vincere se non vuole soccombere in Italia.      
    

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