martedì 14 maggio 2013

A SPINETO TROVATO UN METODO MA NON LE RISPOSTE ATTESE DAL PAESE

di Massimo Colaiacomo

     Il conclave dei ministri nell'abbazia di Spineto non era chiamato a eleggere un Papa ma semplicemente a impedire che avesse vita breve quello appena nominato dal presidente Napolitano. Le polemiche seguite alla manifestazione del PdL a Brescia e il richiamo perentorio del presidente del Consiglio con l'editto che vieta la presenza dei ministri alla manifestazioni di partito almeno fino al voto amministrativo del 26 maggio hanno confermato tutta la fragilità politica dell'esecutivo di servizio. Enrico Letta è un politico esperto e abile, ma anche sensibile (forse perfino timoroso), al netto della sua provata lealtà istituzionale, ai richiami dei partiti. La riunione di Spineto doveva servire per fare chiarezza nell'agenda di governo, stabilire le priorità economiche e nel campo delle riforme. Ne è uscita una convergenza sul metodo di lavoro, risultato non da poco, ma sono rimaste avvolte nella nebbia le urgenze economiche e sociali dell'Italia.
     È vero che i titoli dell'agenda economica e sociale sono stati ordinati in modo nuovo: lavoro ai giovani; rinnovo dei finanziamenti per la CIG; soluzione al problema degli esodati. Fin qui tutto chiaro. Con quali risorse finanziare programmi tanto ambiziosi e socialmente rilevanti non è stato detto né potrà essere chiarito prima del rientro del ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni dal vertice dell'Eurogruppo a Bruxelles. Perché è in Europa, e nella disponibilità della Germania e dei suoi "satelliti" (Olanda, Belgio, Norvegia, Finlandia) che si decide la realizzabilità dei programmi del governo italiano. Programmi, come si diceva, avvolti nella vaghezza ma, circostanza ancor più rilevante, modellati sulle attese di un esecutivo che dovrebbe avere davanti a sé una se non due legislature.
     Colpisce, invece, la chiarezza estrema con cui il presidente Letta, il suo vice Alfano e il ministro Quagliariello hanno delineato il percorso riformatore e la "rete di sicurezza", consistente in piccoli ritocchi del Porcellum, da stendere nell'eventualità di uno scivolamento improvviso verso le elezioni.  Che cosa può significare tutto questo? Scarsa fiducia nella durata dell'esecutivo o nella capacità e volontà delle forze politiche di fare le riforme? L'agenda delle riforme divide Pd-PdL più della stessa cancellazione dell'IMU. Per Letta è prioritaria la riforma della legge elettorale (priorità quanto meno inopportuna per un presidente del Consiglio appena battezzato). Per Quagliariello e il capogruppo PdL al Senato Schifani la legge elettorale è l'ultimo gradino nella scala delle riforme, preceduto dalla scelta fra opzioni di fondo che riguardano il sistema istituzionale (parlamentare o presidenziale).
     E' di tutta evidenza che le divergenze in materia elettorale sono soltanto la spia del diverso mood con cui governo e maggioranza affrontano questo tornante. C'è tatticismo, è ovvio, anche nella posizione del PdL, convinto che andare alle urne con il Porcellum potrà garantirgli un'agevole maggioranza parlamentare. In attesa del Consiglio dei ministri, spostatoa venerdì dopo essere stato convocato inizialmente per domani, resta in alto mare la definizione di una linea economica dell'esecutivo. Il ministro dell'Economia, Saccomanni, di ritorno dall'Eurogruppo si è rivolto erga omnes ai suoi colleghi di governo per invitarli, nell'indicare nuove spese per i loro dicasteri, a segnalare i tagli equivalenti. Una posizione pilatesca da parte di chi detiene i cordoni della borsa e a cui sarebbe richiesta un'impostazione attiva della politica economica capace di andare oltre l'equazione zero uguale zero.
     A frenare l'azione del governo, o quanto meno a renderla timida sui capitoli sociali più rilevanti, non è soltanto il timore delle possibili conseguenze derivanti dalle vicende processuali di Berlusconi. Letta sa che il Cavaliere non potrà mai rompere sulla giustizia, per la semplice ragione che giocherebbe la carta sbagliata per presentarsi al giudizio degli elettori. E sa anche che soltanto una condanna definitiva (come sarebbe la sentenza sfavoreole della Cassazione su Mediaset, attesa per dicembre) potrebbe indurre il Cavaliere a rovesciare il tavolo. Prima di dicembre è difficile immaginare uno showdown da parte del Cavaliere.
     Anche in quel caso, però, molto dipenderà da come il governo avrà saputo operare in questi mesi. Per Letta può essere cruciale andare subito a segno con due o tre provvedimenti importanti per rompere il muro di scetticismo che circonda il suo tentativo. Misure contro la disoccupazione giovanile (senza che sia lo Stato a inventarsi posti di lavoro) e riforma del fisco sulla casa potrebbero guadagnare consensi al suo esecutivo e indirizzare su un cammino diverso le tensioni che si vanno accumulando dentro i due partiti maggiori.

venerdì 10 maggio 2013

POLIZZA VITA GOVERNO FINO A DICEMBRE, POI DECIDERÀ' SENTENZA CASSAZIONE SU MEDIASET

di Massimo Colaiacomo

     La Cassazione si pronuncerà sul giudizio della Corte d'appello di Milano contro Berlusconi entro la fine dell'anno. Il che significa che sulla navigazione dell'esecutivo non ci saranno per  i prossimi mesi ostacoli o imprevisti legati alla vicenda giudiziaria del Cavaliere. Né è agevole ipotizzare che ci saranno in caso di sentenza sfavorevole a Berlusconi. Il Cavaliere ha instradato stabilmente su un doppio binario la sua strategia: da un lato affida a un gruppo di fedelissimi l'espressione della sua collera per la condanna di Milano; dall'altro lato, esprime in prima persona il massimo sostegno al governo Letta e alla necessità di rafforzarlo in un clima di concordia nazionale.
     Un comportamento che crea qualche difficoltà al Pd al cui interno sale il rumore e l'insofferenza per un quadro politico difficile da tollerare per quella parte del ceto politico che si è nutrita in decenni di antiberlusconismo. Come ben dimostra l'intervista di Rosy Bindi sulla "Stampa" nella quale spara ad alzo zero contro i rischi di "correità" (sic) con Berlusconi.
     L'assemblea nazionale convocata per domani è avvolta nella nebbia più fitta. Il Pd vi arriva esausto da due mesi vissuti allo sbando, reso acefalo dagli errori del gruppo dirigente che si presenta dimissionario in blocco. L'incertezza se nominare un reggente o un segretario a tutti gli effetti è l'ultimo dilemma nelle settimane cruciali per la stessa sopravvivenza del partito.
     La scelta di un reggente, per rinviare al congresso l'elezione del segretario, è un rischio elevatissimo per il ceto parlamentare del Pd. Stante la precarietà del quadro politico, nell'eventualità, tutt'altro che remota, di una nuova campagna elettorale di quali poteri potrà mai disporre un reggente? Se, invece, sarà eletto un segretario pro-tempore, con un mandato circoscritto alla gestione ordinaria, come potrà e dovrà regolarsi nella definizione delle liste in caso di voto anticipato? Il rischio è di un'implosione del Pd o di una sua deriva radicale all'inseguimento del grillismo e delle pulsioni dell'antipolitica variamente denominate.
     Come si vede si tratta di rebus di non facile soluzione. In mezzo, e non è uno scherzo, c'è il sostegno da assicurare al governo Letta la cui fragilità programmatica si sta facendo sentire fin dai primi stentati passi. Il tema delle coperture di spesa per l'abolizione dell'Imu sulla prima casa (ma, paradosso non da poco, rimane sui capannoni industriali dove si produce ricchezza) o per la soluzione  del dramma degli esodati e la proroga della cassa integrazione straordinaria è all'ordine del giorno e il ministro Saccomanni, atteso nel weekend da una serie di impegni internazionali, si presenta con un'agenda ancora bianca. Né domani al FMI né, lunedì prossimo, al vertice Ecofin, Saccomanni sarà in grado di illustrare le coperture previste dal governo per confermare l'invarianza dei conti pubblici.
     E' difficile immaginare soluzioni indolori sul piano sociale. È più facile immaginare che tasse ridotte o abolite da una parte rispuntino da un'altra parte sotto altre spoglie. Perché il punto su cui hanno fin qui taciuto i principali soci di maggioranza (PD e PDL) sono i possibili interventi sulla spesa. A conferma del vento populista che ancora soffia nelle loro vele, a distanza di due mesi dal voto ma nel timore che possa tornarsi presto nelle urne. Navigando perennemente fra Scilla e Cariddi, né il governo Letta né qualunque altro dovesse prendere il suo posto potrà mai aprire il libro dei tagli alla spesa pubblica. Che non sono soltanto, come ama dire una certa retorica, i tagli alle spese "inutili" ma sono diventati, nel tempo e nella progressiva estensione del debito, tagli alla spesa sociale. Su questo punto regna però il silenzio i,barattato e codardo di chi dovrebbe assumersi responsabilità chiare nei confronti del Paese.

mercoledì 8 maggio 2013

SPENTA LA MICCIA SULLE RIFORME VERA SFIDA PER GOVERNO E' LA SITUAZIONE ECONOMICA

di Massimo Colaiacomo

     Con uno dei suoi repentini cambi d'abito, Silvio Berlusconi ha indossato i panni dello statista e ha spento l'incendio che le forze politiche avevano appiccato attorno alla Convenzione per le riforme e alla sua presidenza. Berlusconi, intervistato da Maurizio Belpietro, ha negato ogni ambizione personale archiviando nella categoria dello scherzo la sua battuta sulla presidenza della Convenzione. E ha indicato nel Parlamento e nell'art. 138 della Costituzione la sede e lo strumento più adeguati per qualsiasi discorso sulle Riforme. Che cosa significa questo revirement si capirà presto. E' possibile però misurare gli effetti immediati delle affermazioni fatte dal Cavaliere stamane.
     Con la bocciatura delle Convenzione, Berlusconi ha puntato a due obiettivi: da un lato disinnescare un motivo di conflitto nella maggioranza con le inevitabili ripercussioni su un esecutivo fragile sul piano politico, almeno finché non avrà individuato una rotta di navigazione. Dall'altro lato, rimettendo la palla delle riforme in Parlamento Berlusconi accentua in qualche modo la natura tutta politica e non tecnica, come sarebbe stato con la Convenzione, del processo riformatore da avviare. È evidente che in questo modo Berlusconi lancia una sfida al Pd chiamandolo a uscire dallo smarrimento e dallo stato di confusione in cui versa per assumersi chiare e vincolanti responsabilità di fronte al Paese.
     La strategia di Berlusconi non contiene, al momento, l'opzione del ritorno immediato alle urne. Neppure, è evidente, lo esclude, ma punta a rendere comprensibile e visibile agli occhi del Paese sul conto di chi andranno caricate le responsabilità di un eventuale fallimento delle riforme. Sotto questo aspetto, si può dire che Berlusconi punti a snidare insieme Pd e M5s scontando che in quelle due forze si annidano le maggiori resistenze a ogni revisione profonda e incisiva della Costituzione. In questo senso, la Convenzione, con la sua natura ibrida di organismo non si sa se più politico o tecnico, agevolerebbe i disegni di chi punta ad annacquare o bloccare del tutto le riforme lasciando sospese nell'aria le responsabilità politiche.
     Il Cavaliere non si è addentrato invece sul terreno delle politiche di governo. E non ha rinnovato la sua litania sull'IMU da abolire sulla prima casa. Questo non significa naturalmente che sia cambiata la sua strategia. Può significare piuttosto che il PdL intende vedere tutte le carte che il premier Enrico Letta vorrà e saprà mettere sul tavolo in materia fiscale. Il punto cardine della politica fiscale dell'esecutivo è fin troppo chiaro: qualunque intervento di alleggerimento della pressione ha come presupposto l'invarianza del gettito fiscale. Lo chiede Bruxelles, lo impone la situazione economica e, si può aggiungere, è il vincolo che tiene unite le forze della maggioranza. Per la ragione che nessun partito ha mai posto sul tappeto il problema di tagli drastici alla spesa pubblica. Si ripete in modo stantio la giaculatoria delle "spese inutili" da sforbiciare e qualcosa era già stato fatto da Enrico Bondi, il tecnico nominato da Mario Monti.
     Ma nessuna forza politica ha finora sfornato un'idea convincente su come intervenire sulla montagna di spesa sociale alta 880 miliardi di euro per il 2012. Intervenire, come ha fatto Bondi, realizzando tagli per complessivi 4,8 miliardi, cioè poco più dello 0,5 %, significa soltanto rinviare l'appetito di quell'enorme pachiderma.
     La debolezza dell'esecutivo Letta potrebbe manifestarsi proprio su questo più che su altri versanti. Il controllo della spesa pubblica è stato realizzato, dalla metà degli anni '50 in avanti, agendo solo ed esclusivamente dal lato fiscale senza mai riuscire ad arginarne le fonti. Su questo punto, Pd e PdL non hanno idee troppo dissimili dal governo tecnico di Mario Monti. Tutti invocano un alleggerimento della pressione fiscale sul lavoro o sulla casa, sui redditi bassi o su altre categorie malmesse dalla crisi, mai una volta però che si indichi per recuperare le risorse che mancano allo Stato una via diversa dagli aggravi delle tasse attraverso una partita di giro fra le diverse classi di contribuenti. Meno tasse sul lavoro, ha detto Letta, e più sulle rendite finanziarie. Bene, cioè male: tassare di più i redditi dell'investimento azionario con le aziende che boccheggiano non è un freno per chiunque voglia investire? Come è pensabile una strategia simile in un Paese che ha pressoché cancellato il credito alle imprese e ha una fame bulimica di capitali freschi?

venerdì 3 maggio 2013

PERCHE' LA BATTAGLIA ALL'ULTIMO SANGUE INTORNO ALLA CONVENZIONE



di Massimo Colaiacomo

     
     Le agenzie di stampa, si sa, sono lo strumento preferito dalla politica per consumare battaglie di asprezza inusitata pari almeno, per fortuna del Paese, alla povertà delle conseguenze. Attraverso questa vetrina si svolgono da alcuni giorni, con cadenza quasi oraria, le incursioni dei parlamentari del PdL che rivendicano la presidenza della Convenzione per le riforme al centrodestra e, quasi inutile dirlo, al suo leader. A leggere il tenore di certe dichiarazioni si ricava l'impressione di un imminente esplosione atomica nel caso quella presidenza dovesse finire in mani diverse.
     Davvero il quadro politico è a un passo dalla deflagrazione a causa degli equilibri nella Convenzione per le riforme? Naturalmente no. Per la ragione, semplice e antica, che nella politica, non solo italiana, si rivendica qualcosa per accampare il diritto a vedere accolte altre richieste. Insomma, il PdL senza la presidenza della Convenzione può esigere di vedere soddisfatte altre ragioni  in nome di un equilibrio politico che impone ogni volta la ricerca del compromesso. La logica luciferina è tutta qui: più fuochi si accendono intorno al governo più si rende necessario trovare di volta in volta forme di "compensazione" per la parte politica che si ritiene danneggiata o soccombente rispetto alla spartizione degli incarichi o agli accordi di programma.
     Nel caso della Convenzione, però, la battaglia infuria su un organismo privo di effettivi poteri. Non è un organo costituente, il suo ruolo sarà probabilmente depotenziato aprendola alla presenza di professori e studiosi, quindi non solo ai parlamentari. Eppure il PdL ne fa una questione di vita o di morte, almeno in misura pari se non superiore alla cancellazione dell'IMU.
     A cercare il perché di tanta ostinazione si trovano spiegazioni le più diverse, plausibili alcune e più fantasiose altre. Il fronte dell'antiberlusconismo militante scodella la più semplice e ovvia delle ragioni: Berlusconi vuole quella presidenza per vedersi riconosciuto il "legittimo impedimento" ogni qualvolta si renderà necessario, così da prolungare all'infinito i suoi processi e arrivare in carrozza alla prescrizione. Forse questa spiegazione contiene una sua verità, ma viene da chiedersi: tutto qui? E allora perché non puntare a una più tranquilla presidenza di una commissione permanente che avrebbe gli stessi analoghi benefici giudiziari? Siamo sul confine fra il plausibile e il fantasioso.
     A guardare la vicenda con gli occhi ingenui dell'analisi politica, e al netto dei retroscena che rovistano in tutti i bauli e cassonetti a portata di mano, si trova una spiegazione molto più robusta: la presidenza della Convenzione per le riforme si presenta come il contraltare politico alla presidenza del Consiglio. Il suo presidente è una sorta di "secondo pilota" del governo e dal suo monitor può quanto meno codecidere con il presidente Letta il timing della durata del governo. E tanti poteri non sono scaturiti da una qualche volontà diabolica. Essi sono stati conferiti alla Convenzione dallo stesso Enrico Letta quando, nell'intervento sulla fiducia alla Camera, ha legato la durata del suo esecutivo alla realizzazione di riforme come la legge elettorale e la revisione della Costituzione. 
     In questo modo, è evidente, Letta ha indicato nel presidente della Convenzione una specie di suo "secondo". Fare o non fare le riforme significa aprire la navigazione al governo o decretarne la fine. Farle, significa intestarsi meriti a questo punto di portata storica, visto che dall'annuncio della Grande Riforma di Bettino Craxi sono trascorsi 35 anni. La Francia, nello stesso arco di tempo, ha fatto e disfatto due Repubbliche.
     La presidenza a Berlusconi sarebbe "inopportuna", ha sentenziato Massimo D'Alema senza dare ulteriori spiegazioni. In quell'aggettivo è racchiuso un vasto oceano di allusioni nel quale D'Alema sa nuotare come pochi altri. Non meno "inopportuna", si può osservare, sarebbe l'assegnazione di quella presidenza a Stefano Rodotà, come pure propone qualcuno da sinistra. Non per la mancanza di qualità e di titoli della persona, blasonata come pochi altri politici. Ma per la ragione che è difficile far riformare la Costituzione a qualcuno che la ritiene intangibile e considera più che un sacrilegio qualunque sua modifica. Sarebbe come riesumare la salma di Breznev per riformare la Russia di Putin.
     Gli squilli di diana che provengono dal centrodestra non sono l'annuncio di una guerra all'esecutivo, ma assomigliano piuttosto alla bandiera da mostrare agli avversari politici e agli elettori. L'assalto al governo non è per ora né per giugno. Berlusconi non può commettere l'errore di staccare la spina a un esecutivo che ha aperto un "fronte" in Europa riprendendo la battaglia a suo tempo affrontata da Berlusconi in solitudine. Se Letta riuscirà a strappare alla Merkel e a Von Rompuy qualche concessione, e di non poco conto, per aprire spazi alla crescita, tutte le battaglie di carta di questi giorni finiranno in un cestino. Diversamente, il vascello dell'esecutivo sarà destinato a finire nelle secche.
     Letta ha scelto l'Europa come terreno per la sua sopravvivenza. Lì deve vincere se non vuole soccombere in Italia.      
    

giovedì 2 maggio 2013

SPAZI STRETTI PER IL GOVERNO, LETTA ATTESO A SCELTE AMBIZIOSE O CONDANNATO A BREVE SOPRAVVIVENZA



di Massimo Colaiacomo

     L'idea del presidente del Consiglio Enrico Letta di farsi affiancare dall'Ocse nella ricerca di soluzioni adeguate per combattere la disoccupazione, giovanile in particolare, è un'idea insieme eccellente e insidiosa. L'opposizione politica all'esecutivo non tarderà a trarne come conseguenza che l'Italia è sulla via di un comissariamento, morbido o strisciante che sia, da parte dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Vero è che non si tratta della Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale, sentinelle occhiute dei conti pubblici e messaggeri di manovre fiscali, ma l'idea di Letta, frutto sicuramente di un'intenzione seria, presta il fianco alle critiche di quell'arcipelago grillino che raccoglie lo scontento e l'animo malmostoso che agita il Paese.
     Nel suo tour presso le capitali europee, Letta ha toccato con mano quanto già sapeva. Al netto della cortesia e della fiducia per la sua persona, ha potuto riscontrare che margini di flessibilità nella gestione del debito, e più ancora del deficit, ci sono ma sono drammaticamente scarsi. In sostanza, il nuovo governo italiano può azionare la leva fiscale a condizione che questo non comporti lo sforamento del rapporto deficit-Pil fissato al 3%. E già oggi, come ha confermato l'OCSE, si viaggia intorno al 3,3%, cioè superiore di un 10%. Se facessero fede questi dati e non quelli della BCE, ecco che la procedura di infrazione contro l'Italia non potrebbe essere chiusa, come invece sarà, nelle prossime settimane.
     L'Ocse ha sfornato una serie di dati sull'Italia dai quali si ricava una foto in chiaroscuro della situazione economica e sociale. Con una chiara prevalenza delle tinte forti. E' vero che la raccomandazione finale socchiude la porta alla speranza annunciando che l'Italia potrebbe uscire dalla crisi alla fine del 2013. Ma a ben vedere si tratta di un obiettivo per conseguire il quale vengono suggerite misure e riforme talmente incisive da mettere a dura prova una maggioranza politica forte nei numeri ma assai meno coesa nello spirito.
     La realtà economica vista con gli occhi delle forze sociali non coincide minimamente con la view dell'OCSE. Cgil, Cisl e Uil hanno richiamato il governo ad agire rapidamente per alleggerire la pressione fiscale su lavoro e famiglie. Ad essi si è associata la Confcommercio, per ricordare al governo che anche la cancellazione dell'IMU deve far parte di un pacchetto di rilancio dei consumi. Non serve aggiungere che il capogruppo PdL alla Camera, Renato Brunetta, ha snocciolato la sua quotidiana litania sui benefici straordinari che verranno all'economia dalla sparizione dell'odiata tassa. Brunetta ha elogiato il presidente Letta per la posizione assunta nei riguardi di Merkel e delle autorità europee, ma ha ripetuto la sua messa in guardia: senza la cancellazione dell'IMU non ci sarà più un governo.
     La battaglia sull'IMU assomiglia sempre di più al fronte delle Ardenne nell'inverno del '44. Berlusconi vuole "sfondare" su questo capitolo del programma, avendone fatto la bandiera del suo personale impegno politico. E' evidente, però, che risolta per il momento la partita con la "sospensione" della rata di giugno, la discussione vera sul terreno fiscale si intavolerà a ridosso dell'estate. Quando il governo aprirà il capitolo fiscale, tutti dovranno calare le loro carte. E allora a nessuno più sarà concesso il bluff e la propaganda facile. Per ogni posta di bilancio che comporti aggravi di spesa si dovrà indicare un taglio corrispondente, permanente e strutturale.
     L'espediente retorico dei tagli alle "spese inutili" mostra già adesso la corda. Chi classifica e sulla base di quali criteri le spese inutili per distinguerle da quelle utili? Ad esempio, abolire 106 Province è una misura che sicuramente snellisce e semplifica l'assetto istituzionale. I risparmi che essa consente, stimati intorno ai 2 miliardi l'anno, sono ragguardevoli se immaginiamo un esercito di circa 5000 fra consiglieri e assessori che non percepiranno più indennità. Bene: ma gli eserciti di staff e autisti vanno ricollocati altrove. E le funzioni svolte dalle Province (edilizia scolastica, manutenzione delle strade) vanno intestate ad altri enti. 
     Su questi capitoli quali scelte il governo sarà in grado di compiere? Quali strumenti sarà in grado di mettere in campo per restituire efficienza all'amministrazione pubblica sottraendola al ruolo delle Gorgoni che tutto distruggevano e annientavano con il solo sguardo?
     Crescita, rilancio dei consumi e occupazione giovanile sono al momento i titoli più gettonati nel dibattito pubblico. Sarà interessante capire che cosa sapranno scrivere governo e forze sociali una volta aperti i singoli capitoli. Soprattutto sarà interessante capire se il governo troverà la forza e la coesione della maggioranza per fare le scelte dolorose ma inevitabili se vuole scrivere pagine nuove. Enrico Letta ha pochi mesi a disposizione: per superare l'estate e avviare una navigazione in mare aperto non potrà accontentarsi di sopravvivere ma dovrà puntare tutto su scelte ambiziose da fare prima e spiegare dopo al Paese. 

mercoledì 1 maggio 2013

CAMBIARE L'EUROPA PER CAMBIARE L'ITALIA? VASTO PROGRAMMA ... IMU SI', IMU NO: NESSUN LEADER PARLA DI TAGLI ALLA SPESA PUBBLICA



di Massimo Colaiacomo

     Non ha torto il presidente del Consiglio Enrico Letta quando ricorda al cancelliere tedesco che nessuno ha la formula magica per salvarsi da solo: o l'Europa si salva tutta intera o esploderà in 17 singoli fallimenti. E' una verità ben nota, anche nei pressi di Berlino. Meno note sono le vie che intende seguire l'esecutivo italiano da poco insediato per evitare il fallimento del Bel Paese. La politica economica del governo rimane ancora avvolta nella nebbia nelle sue linee essenziali. Tranne su un punto: la prosecuzione della linea di rigore nei conti pubblici. Come i suoi predecessori, anche Letta ha ribadito la fedeltà del suo esecutivo agli impegni solennemente presi dall'Italia n materia di contenimento del deficit con il tendenziale azzeramento entro il 2013.
     Tutti si chiedono, allora, dove e come Letta troverà gli spazi di manovra per realizzare quell'agenda sociale ricca di impegni annunciata nel discorso alla Camera. Il "dove" si va chiarendo: l'Italia tenterà di seguire le orme della Spagna e ottenere, come ha ottenuto il premier Rajoy, una dilazione di un paio d'anni per l'azzeramento del deficit. E' questo l'obiettivo che si intravvede nelle dichiarazioni di alcuni ministri, come Graziano Del Rio, quando accennano all'esigenza di rendere meno stringenti i vincoli del Patto di Stabilità interno. Si tratta, in altre parole, di consentire ai Comuni cosiddetti "virtuosi" e cioè senza deficit corrente (per la maggior parte si trovano nel Centro-Nord) di riaprire i canali di spesa per finanziare investimenti in opere pubbliche. Comuni e Regioni virtuose. Domanda: la Sicilia, il cui governo regionale ha deciso la stabilizzazione di 3.500 precari mentre a due passi dallo Stretto, in Grecia, il Parlamento ha votato per il licenziamento di 15 mila dipendenti pubblici, deve considerarsi una Regione virtuosa o dissennata?
     Nella conferenza stampa seguita al faccia a faccia con il presidente Letta, il cancelliere Angela Merkel si è detta convinta come Letta della necessità di avviare politiche di crescita, precisando però che in ogni caso "non lo Stato, ma le imprese private devono creare posti di lavoro". Non è chiaro se la precisazione di Merkel sia stata una risposta, in pubblico, a qualche argomentazione usata da Enrico Letta nel precedente colloquio privato. Se così è stato, si può dire che ieri, a Berlino, si  ripetuto lo stesso tenore del colloquio che, nel gennaio 1953, vide protagonisti Alcide De Gasperi (nel ruolo di Merkel) e Amintore Fanfani (nel ruolo di Letta).
     Il ministro aretino dell'Agricoltura chiese all'allora presidente del Consiglio di aumentare la pressione fiscale così da poter finanziare politiche attive del lavoro, in pratica assumendo negli enti pubblici, centrali e periferici, una parte della grande massa di disoccupati. La risposta di De Gasperi non fu moto diversa da quella data ieri da Merkel: lo Stato può occuparsi di costruire la cornice più propizia per favorire l'attività d'impresa. Solo quest'ultima, però, può costruire posti di lavoro veri e solidi senza aggravi di spesa per lo Stato.
     E' senz'altro prematuro, e oltre modo presuntuoso, azzardare valutazioni  sulle politiche economiche di bilancio e sulla politica sociale del governo appena insediato. Né sarebbe lungimirante affidarsi alla sensazione che può trasmettere l'esito di un vertice per quanto importante come quello avuto ieri da Enrico Letta con il cancelliere Merkel. Si coglie però nell'aria come un profumo già sentito in altre stagioni. Politiche di sollievo al disagio sociale sono possibile soltanto seguendo il "metodo Crocetta": lo Stato apre le porte di enti pubblici centrali e periferici e assorbe, utilizzando una delle tante categorie contrattuali del precariato, una quota dei giovani disoccupati.
     Sarebbe il primo ma già fatale errore per un esecutivo nato con l'ambizione di riformare e cambiare l'Italia. Letta ha fatto solo un vago cenno nel suo discorso programmatico alla necessità di deburocratizzare i rapporti fra Stato, cittadini e imprese. Questo dovrebbe essere invece il primo e più urgente passo da compiere per far dimagrire quel pachiderma pubblico, fra i più onnivori e insaziabili, che è lo Stato italiano.
     Questa è solo una delle mille sfide che attendono l'esecutivo "di servizio" affidato a Letta. Di fronte all'eventuale inazione del governo su questo versante avrebbe buon gioco il fronte liberal-populista a stringersi intorno al suo leader Berlusconi e a porre l'aut-aut sulla cancellazione dell'IMU: o via l'IMU o via il governo, è il ritornello delle truppe vocianti del populismo.
     Con successo sempre rinnovato,  Berlusconi continua a coltivare la ragnatela di promesse elettorali: promesse prese tre mesi fa, ma sempre valide nel caso di ritorno alle urne in tempi ravvicinati. Alleggerire le tasse è un dovere e l'IMU, al pari di altre imposte e balzelli, sarebbe da togliere non oggi, ma ieri. 
     Domanda: come sostituire i mancati introiti dell'IMU? Lo stregone di turno ha pronta la sua magia: più soldi in tasca agli italiani significa più consumi, meno tasse sulla casa significa rilancio del settore edilizio. Tutto semplice, tutto facile. Perché non averci pensato prima?
     Si tratta, come è evidente, di una favola evergreen. Sul successo di questa terapia, come di altre, è lecito avere più di un dubbio. Più soldi in circolazione significa intanto una ripresa dell'inflazione. Siccome il governo della moneta non è a Roma ma a Francoforte, il rischio evidente è che un'impennata inflattiva in un Paese come l'Italia possa indurre la BCE ad alzare nuove difese per la salute dell'Euro. Quindi stop alla politica di relax sui tassi e immediata restrizione del credito, già asfittico quello per le imprese.
     C'è un'altra strada possibile, mai esplorata da nessun governo e, c'è da scommettere, preclusa anche all'esecutivo di Enrico Letta per via della maggioranza multanime che lo sostiene. E' la strada di tagli incisivi della spesa pubblica, ma senza più usare la metafora ipocrita dei tagli alla spesa inutile. No: i tagli incisivi e quantitativamente rilevanti devono toccare la spesa sociale, bruciare sulla pelle dei cittadini. Tagli di spesa e di personale incisivi, estesi e rapidi, nelle amministrazioni centrali e regionali, invece della riduzione progressiva e agonica della spesa che induce la morte per asfissia dell'Italia. Nessuno né hai mai fatto cenno. Si chiami Berlusconi o Letta, Bersani o Brunetta. La partita fra i liberal-populisti e i conservatori sociali ha il potere di perimetrare il campo di gioco che sempre più coincide con la "morta gora" sociale e politica.