di Massimo Colaiacomo
Quale rapporto può esistere fra un partito come il PRI, protagonista di una storia gloriosa al punto da identificarlo con i momenti più alti dell'Italia pre-unitaria e con la nascita della Repubblica, e la miriade di sigle e acronimi che si affannano attorno a Berlusconi o a Renzi alla ricerca di uno strapuntino alla Camera e al Senato? Sulla carta sembra impossibile stabilire un qualsiasi rapporto fra quel che residua del PRI e le fioritura di sigle dietro le quali ci sono frammenti e schegge di partiti quando non vere e proprie liste personali. Sulla carta, perché nella realtà le distanze sono meno siderali di come si potrebbe immaginare. Il PRI uscito dal suo 48° congresso celebrato a Roma è oggi un acronimo nell'oceano di acronimi che assediano Berlusconi e Renzi alla disperata ricerca di uno scranno parlamentare o per riconfermare qualche uscente senza più voti o per appagare qualche ambizione familista.
Messa così, la valutazione può apparire severa o ingenerosa. Allora vediamo di spiegare che cosa è finito del Partito Repubblicano e che cosa si cerca di spacciare per vivo e vitale ma che vivo e vitale non è più. Il PRI modellato negli anni '60, nel passaggio dalla stagione di Oronzo Reale a quella di Ugo La Malfa, si impose sulla scena politica come una forza minoritaria nei numeri ma capace di proporre straordinarie sfide politiche alle "due chiese", cioè DC e PCI, fino allora vissute e prosperate grazie alla contrapposizione ideologica Est-Ovest che aveva fatto dell'Italia una linea di confine.
La Malfa aveva intuito con largo anticipo sui tempi la condizione paralizzante di quella realtà e pose a Moro, a Ingrao, Amendola e Berlinguer la questione dello sviluppo e i termini in cui essa andava affrontata in una società capitalistica complessa, irriducibile agli schemi dell'ideologia e del classismo. In un dibattito divenuto famoso, a Ravenna, nel 1963, La Malfa chiese a bruciapelo a Ingrao e Amendola che cosa avrebbero scelto di fare trovandosi con una sola gallina e niente altro in dispensa. "Mangiare la gallina una volta per tutte, oppure accontentarsi di prendere un uovo al giorno nella speranza di avere prima o poi altre galline". Il capitalismo-gallina partorito dalla fantasia ugolamalfiana rendeva bene l'idea, nell'Italia impegnata in quegli anni nell'imponente opera di riforme e di svecchiamento delle proprie strutture sociali e delle infrastrutture materiali, della complessità delle politiche economiche di bilancio e delle politiche sociali necessarie per rendere duraturo e sostenibile lo sviluppo avviato con i governi Fanfani.
Il partito raccolto da Ugo La Malfa sull'orlo del baratro e ridotto al lumicino in Parlamento, si salvò e recuperò rapidamente il proprio ruolo negli equilibri politici e nella società italiana perché seppe trasformarsi in una fucina di idee e di programmi. In una parola, il concetto di modernità, non ancora una categoria ideologica negli anni '60, trovò in La Malfa e nelle radici della sua cultura azionista, ma soprattutto fabiana, un interprete straordinario che sapeva leggere le insufficienze e le inadeguatezze di una società in via di trasformazione ma sapeva coglierne anche le ansie di progresso.
Non fu il PRI a proporsi quale "coscienza critica" nei governi di centro-sinistra, furono piuttosto le circostanze e i ritardi della sinistra, ancora chiusa nel recinto dell'ideologia marxista, come pure quella forma di carezzevole e rassegnato conservatorismo della DC a fare del PRI il perno di una stagione riformista senza salti nel buio. La Malfa seppe contrapporsi a quello che Alberto Ronchey battezzò come "pansindacalismo", alba di ogni concertazione costruita sul debito pubblico, e nello stesso tempo polemizzare con Giovanni Agnelli sull'unificazione del punto di scala mobile.
Che cosa rimane di quella stagione e di quella successiva, non meno straordinaria, vissuta dal PRI nel segno di Giovanni Spadolini? Nel partito attuale non rimane niente. A parte gli appelli ineluttabili dell'anagrafe, delle idealità e dei valori repubblicani nulla è circolato nel 48° Congresso. Due giorni di dibattiti sterili su quali alleanze costruire, senza mai chiedersi: per fare che cosa? Il congresso ha stabilito che per il partito è decisivo avere un parlamentare purchessia. Qualcuno non disdegnerebbe un dialogo con i grillini per giustificare il quale è stato addirittura richiamato il confronto di La Malfa con il PCI. Di fronte a simili spropositi come ha risposto il Congresso? Si proceda all'alleanza con Denis Verdini! Un partito che oscilla da Grillo a Verdini è evidentemente un partito senza una sia pur vaga idea di dove andare. Per non dire poi del "che fare". In due giorni e mezzo non un'idea o uno spunto di programma è uscito dal congresso. Il vuoto pneumatico. Tutti preoccupati di spiegare perché in quella città ci si allea con la Lega, in quell'altra con il PD e in Sicilia con il centrodestra.
È mancato il propellente decisivo nella vita di ogni formazione politica: l'orgoglio della propria storia e l'orgoglio della propria autonomia. Un partito senza idee può solo prostituire il proprio simbolo per ottenere un predellino in Parlamento ma deve rassegnarsi all'irrilevanza e alla fine. Impelagarsi, come ha fatto il PRI, in liti giudiziarie che durano da una decina d'anni significa costringere il partito di Mazzini e di Cattaneo, di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini, a un'agonia straziante e immeritata. Il CN convocato per sabato prossimo a Roma ha due possibilità davanti a sé: eleggere un segretario capace di issare la bandiera dell'autonomia e chiamare attorno ad essa un gruppo di audaci pionieri, oppure scegliere l'ennesimo necroforo di una lunga serie. Se dovesse prevalere la seconda opzione, che almeno il rito sia breve e composto.
Messa così, la valutazione può apparire severa o ingenerosa. Allora vediamo di spiegare che cosa è finito del Partito Repubblicano e che cosa si cerca di spacciare per vivo e vitale ma che vivo e vitale non è più. Il PRI modellato negli anni '60, nel passaggio dalla stagione di Oronzo Reale a quella di Ugo La Malfa, si impose sulla scena politica come una forza minoritaria nei numeri ma capace di proporre straordinarie sfide politiche alle "due chiese", cioè DC e PCI, fino allora vissute e prosperate grazie alla contrapposizione ideologica Est-Ovest che aveva fatto dell'Italia una linea di confine.
La Malfa aveva intuito con largo anticipo sui tempi la condizione paralizzante di quella realtà e pose a Moro, a Ingrao, Amendola e Berlinguer la questione dello sviluppo e i termini in cui essa andava affrontata in una società capitalistica complessa, irriducibile agli schemi dell'ideologia e del classismo. In un dibattito divenuto famoso, a Ravenna, nel 1963, La Malfa chiese a bruciapelo a Ingrao e Amendola che cosa avrebbero scelto di fare trovandosi con una sola gallina e niente altro in dispensa. "Mangiare la gallina una volta per tutte, oppure accontentarsi di prendere un uovo al giorno nella speranza di avere prima o poi altre galline". Il capitalismo-gallina partorito dalla fantasia ugolamalfiana rendeva bene l'idea, nell'Italia impegnata in quegli anni nell'imponente opera di riforme e di svecchiamento delle proprie strutture sociali e delle infrastrutture materiali, della complessità delle politiche economiche di bilancio e delle politiche sociali necessarie per rendere duraturo e sostenibile lo sviluppo avviato con i governi Fanfani.
Il partito raccolto da Ugo La Malfa sull'orlo del baratro e ridotto al lumicino in Parlamento, si salvò e recuperò rapidamente il proprio ruolo negli equilibri politici e nella società italiana perché seppe trasformarsi in una fucina di idee e di programmi. In una parola, il concetto di modernità, non ancora una categoria ideologica negli anni '60, trovò in La Malfa e nelle radici della sua cultura azionista, ma soprattutto fabiana, un interprete straordinario che sapeva leggere le insufficienze e le inadeguatezze di una società in via di trasformazione ma sapeva coglierne anche le ansie di progresso.
Non fu il PRI a proporsi quale "coscienza critica" nei governi di centro-sinistra, furono piuttosto le circostanze e i ritardi della sinistra, ancora chiusa nel recinto dell'ideologia marxista, come pure quella forma di carezzevole e rassegnato conservatorismo della DC a fare del PRI il perno di una stagione riformista senza salti nel buio. La Malfa seppe contrapporsi a quello che Alberto Ronchey battezzò come "pansindacalismo", alba di ogni concertazione costruita sul debito pubblico, e nello stesso tempo polemizzare con Giovanni Agnelli sull'unificazione del punto di scala mobile.
Che cosa rimane di quella stagione e di quella successiva, non meno straordinaria, vissuta dal PRI nel segno di Giovanni Spadolini? Nel partito attuale non rimane niente. A parte gli appelli ineluttabili dell'anagrafe, delle idealità e dei valori repubblicani nulla è circolato nel 48° Congresso. Due giorni di dibattiti sterili su quali alleanze costruire, senza mai chiedersi: per fare che cosa? Il congresso ha stabilito che per il partito è decisivo avere un parlamentare purchessia. Qualcuno non disdegnerebbe un dialogo con i grillini per giustificare il quale è stato addirittura richiamato il confronto di La Malfa con il PCI. Di fronte a simili spropositi come ha risposto il Congresso? Si proceda all'alleanza con Denis Verdini! Un partito che oscilla da Grillo a Verdini è evidentemente un partito senza una sia pur vaga idea di dove andare. Per non dire poi del "che fare". In due giorni e mezzo non un'idea o uno spunto di programma è uscito dal congresso. Il vuoto pneumatico. Tutti preoccupati di spiegare perché in quella città ci si allea con la Lega, in quell'altra con il PD e in Sicilia con il centrodestra.
È mancato il propellente decisivo nella vita di ogni formazione politica: l'orgoglio della propria storia e l'orgoglio della propria autonomia. Un partito senza idee può solo prostituire il proprio simbolo per ottenere un predellino in Parlamento ma deve rassegnarsi all'irrilevanza e alla fine. Impelagarsi, come ha fatto il PRI, in liti giudiziarie che durano da una decina d'anni significa costringere il partito di Mazzini e di Cattaneo, di Ugo La Malfa e di Giovanni Spadolini, a un'agonia straziante e immeritata. Il CN convocato per sabato prossimo a Roma ha due possibilità davanti a sé: eleggere un segretario capace di issare la bandiera dell'autonomia e chiamare attorno ad essa un gruppo di audaci pionieri, oppure scegliere l'ennesimo necroforo di una lunga serie. Se dovesse prevalere la seconda opzione, che almeno il rito sia breve e composto.
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